1. Una discussione fuori dagli stereotipi.
Abbiamo voluto porre a questo nostro incontro un titolo che forse sembrerà provocatorio: le vie della parità sono infinite? con l’intenzione di lanciare effettivamente una provocazione, una provocazione, lasciatemi passare il termine, per così dire “maieutica”. Cioè una provocazione che aiuti ciascuno di noi a pensare il problema, uscendo fuori dagli stereotipi ed abbandonando ogni logica di schieramento a favore di una logica di contenuto, di valore, e quindi di senso.
Bisogna uscire fuori dai facili schematismi perchè gli schematismi portano alla banalizzazione del problema e non ci aiutano a raggiungere una matura consapevolezza delle scelte che dobbiamo compiere.
Il primo stereotipo che bisogna superare è quello che intorno alle scelte in tema di parità si stia giocando uno scontro fra cattolici e laici. Su questo punto occorre essere molto chiari. L’Associazione per il rinnovamento della sinistra, sia in sede nazionale, sia in sede locale ha immediatamente aderito all’appello lanciato dalla rivista critica liberale per la difesa della laicità dell’istruzione e della scuola pubblica ed ha partecipato alla manifestazione nazionale del 19 dicembre a Roma. Io stesso ho inviato un messaggio di adesione, però – dico subito – che quel manifesto non mi convince del tutto perchè coglie soltanto una parte della verità, esprime una verità parziale quando pone il tema dello scontro sulla scuola privata in termini di difesa della scuola pubblica contro l’invadenza della scuola privata-confessionale. La parzialità di questo approccio sta nel fatto che esso guarda al futuro, prendendo come modello il passato, l’esperienza di questi 50 anni che ci separano dalla Costituzione. Se noi rivolgiamo il nostro sguardo al passato, è evidente che l’esperienza della scuola privata è quella della scuola confessionale-religiosa. Ed è evidente che a questo tipo di scuola privata pensavano i costituenti quando hanno scritto la norma di cui al secondo comma dell’art. 33, che attribuisce ad Enti e privati il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, laddove il contraltare di questa libertà – come risulta da un intervento chiarissimo di Dossetti all’Assemblea Costituente del 29/4/1947 – è la totale assenza di oneri per lo Stato.
Se noi invece guardiamo al futuro, se prendiamo in considerazione la diversa composizione della società italiana, che si caratterizza sempre di più come una società multiconfessionale, multirazziale, multietnica, assediata da un individualismo disgregatore e attraversata da crescenti linee di frattura, e sempre più incapace di autorappresentarsi in una identità comune, allora non possiamo più pensare al problema dell’espansione della scuola privata negli stessi termini in cui si pensava a questo problema in passato.
D’altro canto la scuola confessionale, o per usare un termine più asettico la scuola di tendenza in Italia è sempre esistita ed è prosperata senza ottenere aiuto alcuno dallo Stato, in conformità al dettato costituzionale. Se adesso quella scuola è in crisi, se perde studenti, se numerosi istituti rischiano di chiudere e moltissimi insegnanti rischiano di restare disoccupati, questo è un evidente segnale che c’è una diminuzione della domanda, questa diminuzione dipende dal fatto che è cambiata la società italiana, è diventata più secolarizzata ed allo stesso tempo più indifferente ai valori. E’ cambiata la domanda stessa di scuola privata, un numero sempre crescente di famiglie preferisce invece di una scuola ispirata ai valori della religione, una scuola ispirata ai valori del mercato. Non a caso molta gente quando sente parlare di valori pensa esclusivamente a qualcosa che si può quotare in borsa o chiudere in cassaforte. Certo in questo momento i panzer che guidano l’attacco contro i bastioni della scuola pubblica sono quelli della CEI, il volume di fuoco viene da quella parte. Il Cardinale Ruini, con la schiettezza che lo contraddistingue ha anche dato i numeri: vuole 4 milioni all’anno di finanziamento pubblico per ogni studente che frequenta al scuola privata. In quest’ottica il vincolo costituzionale è solo una formalità: se la sbrighino i politici a stabilire come aggirarlo.
Non v’è dubbio che l’attacco viene da una parte ben precisa, ma quando gli argini della scuola pubblica saranno stati distrutti, chi sarà che coglierà i frutti dell’espansione delle scuole private nel terreno della formazione delle giovani generazioni che per 50 anni è stato considerato un bene pubblico collettivo ed indivisibile, non appropriabile da nessuno?
Non c’è bisogno di essere facili profeti per comprendere che il bottino non lo raccoglierà la CEI. La parità economica richiesta dalle scuole confessionali per non scomparire rischia di risolversi – paradossalmente – nella loro emarginazione.[1] Le leggi economiche hanno una dimensione di verità insuperabile. Il sostegno finanziario all’iniziativa privata nella scuola, invero, lascerebbe alla legge della concorrenza la determinazione della concreta articolazione del sistema scolastico. Allora non certo le scuole di tendenza ma “solo le scuole capaci di soddisfare la propria clientela sopravviverebbero: esattamente come sopravvivono solo i ristoranti ed i bar che soddisfano la loro clientela. La concorrenza provvederebbe”[2]. Certo in questo settore la legge della concorrenza è temperata dalle opzioni ideologiche delle famiglie. Maggiori sono le diversità da tutelare, maggiore sarà la domanda di scuola per tendenza.
Anche sotto questo profilo, la scuola confessionale-cattolica è destinata a cedere il passo. Poiché noi viviamo in un ordinamento certamente laico ma abitato da una fortissima tradizione cattolica, che attraverso un compromesso virtuoso, di cui Dossetti è stato il massimo artefice, ha assunto nell’ordinamento una antropologia fortemente venata dai valori cattolici, poiché il 90% del corpo insegnante è formato da battezzati, cioè da cattolici, poiché nella scuola pubblica c’è l’insegnamento della religione cattolica, non sono certamente le famiglie cattoliche ad aver bisogno della scuola privata per esercitare la loro responsabilità educativa nei confronti dei figli. Questo bisogno invece è massimo nelle persone di religione mussulmana, che hanno indubbiamente maggiori difficoltà di noi a conservare le tradizioni ed i precetti della loro fede. Per questo il paradosso sul quale dobbiamo riflettere è questo: a seguito della virulenta offensiva dei cattolici, stiamo creando le condizioni per far sorgere e diffondere nel nostro paese la scuola islamica. Questo risultato – forse – sarebbe apprezzabile se fosse frutto di ecumenismo, ma in realtà è frutto solo della miopia di chi non sa guardare un centimetro oltre del proprio naso o del proprio portafoglio.
2. Un concreto problema corporativo.
Certo rimane la concretezza del problema corporativo iscritto dietro la crisi della scuola privata di ispirazione cattolica. Un problema che noi non possiamo ignorare ed a cui dobbiamo guardare con una certa indulgenza. Noi non possiamo ignorare il ruolo positivo che ha svolto per decenni la scuola cattolica nella formazione della classe dirigente del nostro paese, licenziando un ceto dirigente con una educazione, a volte, eccellente. Quanto sia stato positivo questo ruolo per il nostro paese, ce ne siamo accorti dopo, quando sono arrivati al potere, o nei dintorni del potere, i Berlusconi, i Previti, i Taradash, i Bossi, educati ad un’altra scuola, quella dell’affarismo, e della demagogia etnica e populista. Questi uomini ci hanno fatto rimpiangere la classe dirigente educata all’Università cattolica e ce ne hanno mostrato il valore. Nel nostro paese è stata educata anche un’altra classe dirigente, quella che proveniva dalla scuola di partito. Anche questa scuola ha svolto un ruolo positivo nel nostro paese. Quando la scuola di partito è stata chiusa, noi ci siamo dovuti accontentare di un’altra classe dirigente, formatasi – come ci racconta Nanni Moretti – alla scuola di Happy Days. Anche in questo caso, è il paragone con i successori che ci mostra il valore dell’educazione impartita dalla scuola di partito. Non v’è dubbio, pertanto, che la chiusura o il ridimensionamento di questa tradizione di scuola privata comporta un impoverimento culturale ed etico per il nostro paese. Per questo noi possiamo guardare con una certa indulgenza al problema corporativo della crisi finanziaria che attraversano gli Istituti di istruzione privata di ispirazione religiosa nel nostro paese. Se solo di questo si trattasse, sarebbe insensato costruire una politica muro contro muro, bisognerebbe trovare qualche forma di compromesso, che venga incontro a queste esigenze corporative, senza intaccare o aggirare l’impianto costituzionale. In effetti delle proposte di compromesso sensate sono state avanzate. Penso per esempio alla posizione assunta dai Verdi, favorevoli ad uno sgravio fiscale secco a vantaggio di tutte le famiglie, senza discriminazione alcuna fra chi frequenta la scuola privata e chi frequenta la scuola pubblica. Peraltro ciò sarebbe in conformità con l’orientamento assunto sul punto dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 454/94. Non possiamo però ignorare che questa posizione di compromesso è stata in pratica dichiarata irricevibile, da chi pretende dallo Stato un finanziamento secco di £. 4.000.000= ad alunno, cifra ispirata alla metà del presunto costo per alunno, che spenderebbe lo Stato per coloro che frequentano la scuola pubblica. Nè possiamo ignorare che a sostegno del finanziamento diretto alla scuola privata vengono accampate questioni di principio ed ideali, vengono invocati pretesi diritti delle famiglie e delle comunità, viene evocata una certa concezione del pluralismo e dell’educazione scolastica come servizio pubblico. Se una pretesa corporativa, di per sé legittima proprio perchè corporativa, esce fuori dall’ambito che le è proprio e si trasforma in una grande questione politica ed ideale, allora su questo terreno non si possono fare “sconti”, non si possono concedere “indulgenze”, occorre che la politica esca dall’ambiguità ed assuma un linguaggio di una chiarezza estrema dal momento che sono in gioco questioni che attengono ai beni fondamentali di una democrazia.
3. La libertà di scelta delle famiglie.
La prima domanda che dobbiamo porci è quella relativa al preteso diritto delle famiglie di scegliere per i propri figli percorsi formativi, differenti da quelli proposti dalle istituzioni alla generalità dei cittadini, istituendo ed utilizzando delle scuole c.d. di tendenza, cioè organizzate sulla base di uno specifico progetto ideologico e protette dall’influenza di altri progetti o di altre culture. Orbene la responsabilità educativa dei genitori e della famiglia ha solide radici costituzionali (art. 30 “E’ dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori dal matrimonio”). E’ bene chiarire che non si tratta tanto di un diritto, quanto di una responsabilità. Nell’ambito di questa responsabilità c’è l’esigenza dei genitori di proporre specifiche istanze formative ai propri figli. Questo diritto dovere, questa naturale responsabilità educativa dei genitori incontra un limite inerente alla stessa funzione educativa: il limite è che l’educazione è uno strumento per la crescita umana e per la realizzazione della personalità del giovane. Il limite è quindi la persona del giovane stesso. Il minore non è una materia inerte che può essere plasmata a sua piacimento dai genitori, nè è concepibile un diritto dei genitori di plagiare il minore per produrne un clone di sé stessi. Anche il minore ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione, come prevede la Convenzione internazionale dell’ONU sui diritti dell’Infanzia (art. 14). La Convenzione prevede anche che i genitori debbono guidare il fanciullo nell’esercizio di tali diritti, ma in modo consono alle sue capacità evolutive. Il minore ha diritto quindi ad una formazione, non integralista, che ne stimoli la capacità critica. Per questo non può essere costruito come un vero e proprio diritto, costituzionalmente fondato, il diritto dei genitori razzisti di scegliere per i propri figli una scuola composta da soli insegnanti di razza ariana, o il diritto dei genitori leghisti di scegliere per i propri figli una scuola padana, dove non incontreranno mai un immigrato o il diritto dei testimoni di Geova di chiudere i loro figli nel ghetto di una scuola di soli testimoni di Geova. Dalla responsabilità educativa dei genitori non può farsi discendere un vero e proprio diritto dei genitori di istituire delle scuole ghetto per rinchiudervi i propri figli, a cui corrisponda un obbligo di prestazione da parte della Stato o della collettività organizzata. Non v’è dubbio che questa libertà esiste, tant’è vero che è stata implicitamente prevista dal secondo comma dell’art. 33 della Costituzione. Ma si tratta di una mera libertà, una facoltà estrema concessa ai genitori, a fronte della quale non corrisponde alcun obbligo di prestazione da parte della collettività.
4. La scuola nella Costituzione: funzione pubblica, non servizio pubblico.
La seconda questione che dobbiamo affrontare è quella della funzione della scuola, così come è stata concepita dalla Costituzione. Quando si parla della scuola compare sempre più frequentemente l’espressione “servizio pubblico” e le scuole private vengono sempre di più accostate a quelle pubbliche, sotto il profilo del servizio che rendono. Su questo punto occorre essere chiari: la scuola, anche se rende un servizio al pubblico, non è un “servizio pubblico”, bensì una funzione pubblica, come la Difesa, come la giustizia. La scuola non è assimilabile, per esempio, al servizio sanitario. La tutela della salute, diritto fondamentale dell’individuo, a norma dell’art. 32 della Costituzione, si sostanzia – fra le altre cose – nell’obbligo della spesa sociale a tutela della salute della popolazione. La costituzione non dice come quest’obbligo debba espletarsi, non impone di istituire ospedali e case di cura, ed infatti il servizio sanitario nazionale è stato istituito soltanto nel 1978. La Costituzione prescrive soltanto alla Repubblica di garantire cure gratuite agli indigenti. Ben differente è la concezione costituzionale della scuola. A norma dell’art. 33 la Repubblica istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi. L’istituzione e l’esercizio delle scuole è una funzione pubblica, come l’istituzione dei Tribunali e l’amministrazione della giustizia. Ciò ha fatto dire a Calamandrei che: “la scuola è un organo costituzionale, ha la sua posizione, la sua importanza al centro di quegli organi che formano la costituzione.”[3] A questo punto bisogna chiedersi perchè la scuola è così importante nel sistema costituzionale, da far si che essa sia concepita non come un semplice servizio sociale a favore dei meno abbienti ma come una funzione pubblica?
La risposta più convincente a questa domanda noi la troviamo fuori dai codici e dalle leggi o dalla giurisprudenza della Corte Costituzionale, la troviamo in un libro che, nel suo genere costituisce un classico della letteratura del nostro tempo, intendo riferirmi a Lettera ad una professoressa di Don Milani. Questo libro, come tutti voi sapete, è ispirato all’esperienza di una particolare scuola privata, la scuola di Barbiana, creata da Don Milani, non allo scopo di assicurare ai genitori la miserabile libertà di scelta di una scuola di tendenza, ma, al contrario, per consentire ai ragazzi, scacciati da una scuola pubblica con forti connotati di classe, di acquistare quel bene della formazione alla cittadinanza che la scuola pubblica falliva di assicurare a tutti. Scriveva don Milani, interrogandosi sul fine ultimo della scuola. “Cercasi un fine. Bisogna che sia onesto. Grande. Che non presupponga nel ragazzo null’altro che d’essere uomo. Cioè che vada bene per credenti e per atei.. Il fine giusto è dedicarsi al prossimo. Ma questo è solo il fine ultimo da ricordare ogni tanto. Quello immediato, da ricordare minuto per minuto è di intendere gli altri e farsi intendere..Perchè è solo la lingua che fa uguali. Eguale è chi sa esprimersi e intende l’espressione altrui. Che sia ricco o povero conta meno, basta che parli..Tentiamo di educare i ragazzi a più ambizione. Diventare sovrani. Altro che medico o ingegnere! “ La scuola di Barbiana rappresenta una sorta di coscienza infelice della scuola pubblica attraverso la quale è possibile capire meglio la funzione della scuola pubblica – istituzione dello Stato democratico. Questa funzione è fondamentalmente quella di produrre la cittadinanza, di dare la parola a tutti perchè tutti possano divenire sovrani, di rompere il muro delle diseguaglianze dando a ciascuno gli strumenti formativi e culturali, la lingua appunto, per consentirgli di partecipare, in condizioni di parità, all’organizzazione politica economica e sociale del paese, così come richiede l’art. 3, II comma della Costituzione. La scuola pertanto è una funzione pubblica perchè costituisce una istituzione, anzi la principale istituzione della cittadinanza e dell’eguaglianza.
Se noi misconosciamo questi valori, che costituiscono patrimonio inalienabile del popolo italiano, come fanno talune formazioni politiche che oggi vanno per la maggiore, allora la scuola come funzione pubblica ha scarso significato e si riduce sostanzialmente ad un servizio pubblico, che lo Stato può gestire direttamente o dare in concessione ai privati, come si usa per tutti i servizi pubblici. Qui trova fondamento la delirante proposta di Forza Italia che legge l’obbligo per lo Stato di istituire le scuole di ogni ordine e grado come un mero obbligo di spesa e, dividendo il costo del servizio scolastico pro capite, ha inventato un buono-scuola da attribuire ad ogni famiglia, con possibilità di spenderlo presso ogni tipo di scuola pubblica o privata. Questa proposta, se venisse accolta, comporterebbe puramente e semplicemente la distruzione della istruzione come funzione della cittadinanza ed intaccherebbe lo stesso concetto di cittadinanza, affidandola, in buona sostanza, al mercato. Questa proposta – in definitiva – finisce per essere un indice del carattere eversivo – in senso tecnicogiuridico – di questo movimento. Però quello che ci interessa, in questa sede, non è di scomunicare Forza Italia, ma di sottolineare l’inaccettabilità del concetto di servizio pubblico, se si perde di vista il carattere di funzione pubblica della scuola.
4. Il c.d. sistema formativo integrato.
Anche se la scuola è una funzione pubblica, poiché noi viviamo in una società sempre più complessa nella quale coesistono più agenzie o più esperienze formative, non può escludersi a priori l’esigenza di coordinare o di integrare il sistema formativo fondato sulla scuola pubblica con gli altri sistemi formativi esistenti, fra i quali rientrano naturalmente quelli offerti dalla scuola privata. E’ questa l’esigenza che sta alla base del disegno di legge del ministro Berlinguer le cui “disposizioni per il diritto allo studio e per l’espansione e la diversificazione e l’integrazione dell’offerta formativa nel sistema pubblico dell’istruzione e della formazione” si propongono come obiettivo prioritario quello di favorire la generalizzazione della domanda di istruzione a partire dalla prima infanzia lungo tutto l’arco della vita, riconoscendo anche il valore delle iniziative di formazione ed istruzione, da chiunque proposte, che siano coerenti con gli ordinamenti generali ed abbiano livelli di qualità e di efficacia adeguati al conseguimento del successo formativo (com’è scritto nella relazione introduttiva alla legge).
Questa concezione del sistema pubblico dell’istruzione, a cui partecipano anche agenzie formative private, è una elaborazione che nasce dal c. d. “manifesto dei 31” elaborato alcuni anni fa da Claudia Mancina ed altri intellettuali.
Questa esigenza dell’integrazione del sistema formativo non si può non condividere, però essa è stata elaborata in modo così astratto da assumere una carica ambivalente enorme, si da prestarsi ad una vera e propria truffa delle etichette. La truffa consiste nel fatto di assegnare una funzione pubblica solo attraverso un apparente controllo di qualità, di mettere, pertanto, il cappello del pubblico ad esperienze che non possono essere assimilabili ad un servizio pubblico. E’ ben vero che i privati possono svolgere un servizio pubblico come concessionari dello Stato o di Enti pubblici, o addirittura possono svolgere di propria iniziativa attività che ontologicamente costituiscono una forma di servizio pubblico, pensiamo alle attività della Misericordia o della Croce Verde. Quello che caratterizza il servizio pubblico è il fatto che devono esistere condizioni di accesso generalizzato per tutti i cittadini, senza distinzione di razza, di sesso, di etnia o di convinzioni religiose e che la fornitura del servizio deve avvenire secondo i principi vigenti nel sistema pubblico che – nel caso dell’istruzione – prevedono come valore e come criterio organizzativo insuperabile la libertà di insegnamento del docente.
E allora bisogna dire, in modo chiaro, netto e definitivo, che la c.d. “scuola per tendenza” fallisce tutte e due queste condizioni imprescindibili per poter essere considerata parte di un sistema pubblico dell’istruzione.
5. Le condizioni di accesso per la fruizione di un servizio pubblico.
Innanzitutto la “scuola per tendenza” non consente l’accesso generalizzato e senza discriminazione a tutti i possibili utenti del servizio scuola. E’ questa una realtà di fatto e di diritto riconosciuta da tutti i progetti di legge attualmente all’esame del Parlamento in materia di parità. Anche il progetto del Ministro Berlinguer. Tutti questi progetti prevedono che la scuola privata deve accogliere chiunque chieda di iscriversi purché ne condivida il progetto educativo. Questo significa che se una scuola effettua, per esempio, un corso di studi al termine del quale rilascia un titolo equipollente alla licenza liceale classica, non tutti i cittadini che hanno interesse a conseguire quel titolo di studio potranno iscriversi. In altre parole la scuola cattolica per tendenza potrà escludere gli ebrei e i mussulmani, la scuola mussulmana per tendenza potrà escludere i cattolici e gli ebrei, la scuola padana, potrà escludere i meridionali e gli immigrati. Di ciò non possiamo dolerci, perchè il diritto di creare delle scuole ghetto riservata a determinate categorie di persone è iscritto nel principio della libertà di istituzione della scuola privata, che i padri costituenti, nella loro saggezza, hanno voluto includere nella costituzione All’autonomia privata è concesso di organizzare forme di istruzione in modo esclusivo e discriminatorio. Ciò è concepibile fintanto che rimane nell’ambito delle mere autonomie private. Nessuna funzione pubblica o parapubblica può essere direttamente o indirettamente riconosciuta a sistemi scolastici fondati sulla discriminazione razziale sessuale, etnica o religiosa. Le abbiamo già conosciute nella nostra storia, nella storia di questo secolo che volge al tramonto le scuole che escludevano i bambini ebrei.
Quella esperienza non si deve ripetere mai più. Noi non possiamo entrare nel duemila dimenticando le dure lezioni della storia di questo secolo. In ogni caso nel nostro ordinamento vige un principio supercostituzionale che vieta qualunque tipo di discriminazione. Tutto ciò che discrimina non fa parte del sistema pubblico.
6. Il principio della libertà di insegnamento……… e quello della libertà della scuola.
Un altro principio che esclude che la scuola per tendenza possa essere inclusa nel sistema pubblico dell’istruzione risiede nel fatto che questo tipo di scuola non riconosce un principio vigente nella costituzione della Repubblica italiana, che all’art. 33 stabilisce: “l’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento.”, cioè il principio laico della libertà di insegnamento. Questo principio non vige, nella scuola privata, come ci insegna la giurisprudenza, perchè il diritto di istituire delle scuole organizzate sulla base di uno specifico progetto educativo comporta l’obbligo per gli insegnanti di non contraddire quel progetto in virtù del quale la scuola è stata istituita. Insomma nella scuola privata la libertà di insegnamento del singolo insegnante deve cedere il passo alla libertà di insegnamento assicurata alle scuole confessionali in genere ed intesa anche come libertà dei genitori di scegliere per i propri figli un tipo di istruzione concretamente ispirato ai dettami della dottrina cristiana. (Cass. 21/11/91 n. 12530). Alla luce della giurisprudenza di legittimità le scuole confessionali possono esercitare un rigido controllo, non solo sull’insegnamento, ma persino sulla vita privata dell’insegnante. Così la Cassazione (con la sentenza citata) ha ritenuto lecito il licenziamento intimato da un istituto di istruzione religioso di confessione cattolica ad un proprio insegnante laico per avere questi contratto matrimonio con rito civile e non con quello religioso. Questo orientamento è stato confermato da una successiva sentenza della Corte di Cassazione che, pur dichiarando illegittimo il licenziamento, intimato ad un insegnante di educazione fisica colpevole di aver contratto matrimonio secondo le leggi dello Stato italiano, ha comunque riconosciuto la liceità del licenziamento ideologico, stabilendo che: “In tema di organizzazioni di tendenza, il licenziamento ideologico, collegato cioè all’esercizio da parte del prestatore di lavoro di diritti costituzionalmente garantiti, quali la libertà di opinione, la libertà di religione e, nel campo scolastico la libertà di insegnamento, è lecito nei limiti in cui esso sia funzionale a consentire l’esercizio di altri diritti costituzionalmente garantiti, quali la libertà dei partiti politici e dei sindacati, la libertà religiosa e la libertà della scuola…in particolare, con riferimento a scuole gestite da Enti ecclesiastici, l’esigenza di tutela della tendenza confessionale della scuola si pone in relazione a quegli insegnamenti che caratterizzano tale tendenza..”(Cass. 16/6/94 n. 5832).
Devo dire subito che io non condivido tale giurisprudenza che considero inaccettabile perchè in questo caso l’interprete ha fallito il suo compito, che è quello di bilanciare i valori costituzionali in gioco, ed ha considerato il valore costituzionale della libertà della scuola privata, di cui all’art. 33 Cost, addirittura superiore alla libertà di contrarre matrimonio, diritto inviolabile dell’uomo, ai sensi dell’art. 2 della Costituzione, come riconosciuto dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 766 del 7 luglio 1988. Perchè di questo si tratta, del diritto di contrarre matrimonio. Forzare una persona a contrarre matrimonio secondo una determinata confessione religiosa o un’altra costituisce violazione di un diritto inviolabile dell’uomo. Peraltro questo concetto è chiarissimo in giurisprudenza. Vi sono, infatti, numerose pronunzie dei giudici italiani, in tema di matrimonio del cittadino italiano con cittadino straniero, che considerano contraria all’ordine pubblico italiano la pretesa degli Stati islamici di subordinare il nulla osta al matrimonio del loro cittadino alla conversione alla religione islamica del cittadino italiano. In questi casi la giurisprudenza ha riconosciuto che il diritto di contrarre matrimonio è un diritto inviolabile dell’uomo, come tale assoluto e non assoggettabile a nessuna condizione religiosa e per questo ha disatteso la pretesa degli Stati islamici, autorizzando i cittadini di tali Stati a contrarre matrimonio con il cittadino italiano, anche in assenza del nulla osta dello stato di origine.
Ora è evidente che se uno Stato estero, non può limitare, neanche nell’esercizio di una prerogativa derivante dal diritto internazionale, il diritto di un cittadino italiano a contrarre matrimonio, nè può subordinarlo a particolari requisiti religiosi, neanche la scuola privata può dettare condizioni all’esercizio del diritto inviolabile del docente, in quanto cittadino, di contrarre matrimonio secondo le leggi dello Stato. Nè è configurabile al riguardo alcun vincolo contrattuale fra le parti, dal momento che nessuno può spogliarsi per contratto dei diritti fondamentali.
Tuttavia anche non condividendo questa giurisprudenza, non si può non concordare con il fondo del problema, cioè che il principio della libertà della scuola per tendenza comporta un inevitabile sacrificio del principio della libertà di insegnamento vigente nello Stato italiano. Anche i progetti di legge sulla parità, che in qualche modo si propongono di sussumere all’interno di un sistema pubblico integrato la scuola per tendenza, si guardano bene dal modificare questa condizione ed anzi la ribadiscono. Se noi prendiamo in esame, per es. il progetto del CCD che, più di ogni altro esprime il punto di vista di quelle forze che si battono per il rilancio della scuola confessionale, vediamo che l’inesistenza della libertà di insegnamento viene ribadita in maniera chiarissima. Stabilisce, infatti, il 5 comma dell’art. 11 del ddl Brienza che: “Ai docenti, nell’ambito dello specifico indirizzo della scuola paritaria, è garantita la libertà di insegnamento nel rispetto della coscienza morale, civile e religiosa degli alunni e dei loro genitori.” Per rendere la cosa ancora più chiara il comma 7 rincara la dose e stabilisce: “E’ giusta causa di risoluzione unilaterale del rapporto di lavoro la provata incompatibilità con la tendenza culturale o con il progetto pedagogico e la programmazione educativo-didattica della scuola, resa nota e sottoscritta al momento dell’assunzione.”
La scuola privata per tendenza, dunque, vuole che le sia riconosciuta una funzione pubblica, e che una parte della sue spese siano assunte dalla collettività, ma non ha alcuna intenzione di accettare condizionamenti o vincoli alla sua libertà, che rivendica assoluta, soprattutto non vuole accettare le leggi che vigono nella Repubblica italiana.
La prova per nove di questa rivendicazione di libertà assoluta ci viene proprio dalla più autorevole istituzione scolastica confessionale, l’Università cattolica che, proprio qualche mese fa, ha licenziato un insegnante, docente di filosofia del diritto, il prof. Lombardi Vallauri, per “eresia”. Non si è trattato di uno scivolone, il licenziamento è stato disposto dal Cardinale Pio Laghi, nella sua veste di Prefetto della Congregazione Vaticana per l’educazione cattolica, cioè di ministro della “pubblica istruzione” del Vaticano. Certo il Cardinale Pio Laghi, è uno strenuo difensore della fede cattolica, come si conviene ai principi della Chiesa, e noi non abbiamo niente da dire in proposito. Il Cardinale Pio Laghi ha difeso l’ortodossia della fede cattolica con la stessa determinazione e con la stessa coerenza in Italia come in Argentina, dove ha svolto la funzione di nunzio papale. Per questo sono ingenerose le critiche che gli sono state rivolte dalle madri della piazza di maggio. I militari argentini golpisti, i quali hanno sequestrato, torturato ed assassinato alcune decine di migliaia di comunisti, di sovversivi, gente contraria alla patria, alla famiglia ed alla religione, non hanno mai contestato le verità di fede o il magistero della Chiesa cattolica. I militari si sono sempre dichiarati ferventi cattolici ed ha volte hanno rispettato anche nella pratica i precetti della religione. Pensiamo per es. alla dottrina della chiesa in tema di aborto. Pochi sanno che i militari non uccidevano mai le donne incinte per evitare di commettere, anche involontariamente, un aborto, e con esso l’uccisione di un innocente. Essi trattenevano le sovversive incinte in prigionia sino a quando non avevano partorito e poi affidavano i bambini alle amorevoli cure delle famiglie di altri militari, che li accoglievano come se fossero figli loro. Soltanto dopo il parto, le prigioniere venivano torturate ed uccise. Il Cardinale Pio Laghi, pertanto, nella sua attitudine di difensore della fede, non aveva alcun motivo di lanciare contro i militari argentini i fulmini che invece ha scagliato contro il prof. Lombardi Vallauri, soggetto aduso ad erodere il magistero con il tarlo del dubbio. Così l’università cattolica che non ha mai trovato nulla da ridire contro l’insegnamento al disprezzo dei diritti umani dell’ideologo della Lega, prof. Gianfranco Miglio, ha intentato un processo alle idee del prof. Lombardi Vallauri e lo ha dichiarato colpevole di “eresia”, allontanandolo dall’insegnamento, nell’esercizio della libertà che l’ordinamento riconosce alla scuola per tendenza. Qui si pone un piccolo problema giuridico che nella sostanza è anche un problema etico.
7. Eresia e libertà di coscienza.
Si da il caso che la libertà della coscienza rappresenta una dimensione della persona umana che è a fondamento di tutta la costruzione dei diritti dell’uomo. In una sentenza del dicembre del 1991 (n.467) la Corte Costituzionale ha riconosciuto che: “a livello dei valori costituzionali, la protezione della coscienza individuale si ricava dalla tutela delle libertà fondamentali e dei diritti inviolabili, riconosciuti e garantiti all’uomo come singolo, ai sensi dell’art. 2 della costituzione. Pertanto la coscienza individuale ha un rilievo costituzionale che rende possibile la realtà delle libertà fondamentali dell’uomo, e quale regno delle virtualità di espressione dei diritti inviolabili del singolo nella vita di relazione. Per questo ha un valore costituzionale così elevato da giustificare la previsione di esenzioni privilegiate dall’assolvimento di doveri pubblici qualificati dalla costituzione come inderogabili.”
Se la libertà della coscienza ha un valore costituzionale così elevato da giustificare forme di esenzioni privilegiate dall’assolvimento di doveri pubblici, quant’anche qualificati come inderogabili dalla costituzione, così come l’esenzione dal dovere di prestare il servizio militare, per gli obiettori di coscienza, o l’esenzione per i medici ed il personale paramedico dal dovere di effettuare gli interventi abortivi praticati dal servizio sanitario, allora è evidente che un ordinamento che sopprime il valore della libertà di coscienza espellendo gli “eretici”, non può – in alcun modo – essere considerato parte di un sistema pubblico, nè nel campo dell’istruzione, nè in ogni altro campo. C’è poi una questione di metodo. L’istruzione è qualcosa che a che vedere con la conoscenza. La conoscenza presuppone la capacità di mettere in discussione ciò che è già noto, di scavare di indagare, di ricercare, per scoprire quella zona oscura della verità che ci è ancora ignota. Un sistema formativo ha bisogno di persone che mettono in discussione i dogmi, in qualunque settore, per aprire le piste della conoscenza. La scuola più che espellerli, gli eretici li dovrebbe ricercare.
8. Il pluralismo nella scuola o il pluralismo nella scuole: una questione di convivenza.
Infine, last but not least, vi è una funzione implicita nel sistema scolastico istituito dallo Stato, che a lungo è rimasta sullo sfondo, ma negli ultimi tempi va assumendo sempre più carattere cruciale: quella di organizzazione del pluralismo. Al fondo di una certa concezione che propugna la libertà di scelta della famiglie a favore di specifici progetti educativi inscritti nella scuole per tendenza, alligna una presupposizione errata: quella di una scuola pubblica come luogo, almeno istituzionalmente, asettico dove solo si trasmettono scienze, abilità e conoscenze obiettive e dove non c’è spazio per valori ed identità, come se il pluralismo fosse relativismo, “pensiero debole”, privo di quell’etica forte che solo le scuole di tendenza (specificamente confessionali) coltiverebbero.[4] In realtà la scuola pubblica è la sede per la trasmissione critica di valori generalmente condivisi, attraverso il metodo del confronto delle opzioni ideologiche, religiose e culturali proprie degli studenti, degli insegnanti e delle famiglie e delle altre componenti sociali, nell’accettazione della realtà pluralistica delle identità culturali. Alla base di questo metodo vi è una premessa antropologica, formulata da Giuseppe Dossetti nell’ordine del giorno del 9 settembre 1946 intorno all’idea di persona, in senso non particolaristico ed esclusivo di altre idee ma “nella completezza dei suoi valori e dei suoi bisogni”. “Questo concetto fondamentale dell’anteriorità della persona – spiegò Dossetti – della sua visione ideale e dell’integrazione che essa subisce in un pluralismo sociale che dovrebbe essere gradito alle componenti progressiste qui rappresentate, può essere affermato con il consenso di tutti”. Ed infatti questa premessa antropologica fu accettata da tutte le principali forze della Costituente e fu riversata negli articoli 2 e 3 Cost. La scuola pubblica, pertanto, non è un luogo neutrale rispetto ai valori. Quello che è neutrale è il metodo adottato, quello del confronto fra i vari orientamenti ideali e le differenti identità, in vista del fine costituzionale che è quello del pieno svolgimento della persona umana. Questo metodo diventa tanto più necessario, quanto maggiore è l’articolazione religiosa, ideologica, culturale ed etnica della società. Quanto maggiori sono le differenze, tanto maggiore è la necessità di trovare dei sistemi di raccordo e di unità.
E’ stato detto che “La pace è la convivialità della differenze”. Questa definizione della pace è stata coniata da Mons. Tonino Bello all’indomani della marcia dei 500 a Saravievo nel dicembre del 1992. Fu proprio quell’esperienza, l’immersione nell’orrore della guerra etnica, scatenata dalla cessata convivialità della differenze che suggerì a Mons. Bello questa definizione della pace. E’ una definizione che trasmette un messaggio ben preciso: le società multiculturali e multi-etniche, quali sono tutte le società in cui viviamo, se vogliono assicurarsi la pace, devono rendere conviviali le differenze.
La scuola pubblica è l’istituzione per eccellenza che organizza la convivialità delle differenze, attraverso il valore del pluralismo dell’accoglienza e del confronto che essa pratica. Rompere questo valore, sostituire il pluralismo nella scuola dove possono incontrarsi, conoscersi e convivere, credenti ed atei, cattolici ed ebrei, mussulmani ed ortodossi, albanesi e padani, ricchi e poveri, con il pluralismo delle scuole per tendenza, fondate sull’organizzazione dell’esclusione delle diversità, significa passare da un sistema che rende conviviali le differenze ad un sistema che omologa ed appiattisce i giovani privandoli del valore delle differenze e rendendo le differenze stesse, barriere insuperabili e fattore di incomunicabilità fra gli uomini e le donne.
In questi giorni le sorti della pace nei Balcani sono appese al filo del negoziato di Rambouillet. La crisi del Kosovo, come quella della Bosnia, è una crisi della convivenza. Fra la comunità serba del Kosovo e quella albanese si è ormai creata una sorta di apartheid così impenetrabile da far impallidire quella che una volta vigeva in Sud Africa. Pochi si rendono conto che la scuola è stato una dei terreni principali attraverso il quale è stata costruita la frattura sociale fra le due comunità. Nel settembre ottobre del 1991 le autorità della Serbia hanno vietato l’insegnamento in Albanese ed hanno costretto gli insegnanti di lingua Albanese a dimettersi o ad essere licenziati, con la conseguenza che i bambini albanesi hanno abbandonato la scuola pubblica. Gli albanesi hanno istituito quindi un sistema di scuole alternativo riservato ai ragazzi albanesi, tagliati fuori dalla scuola pubblica. In questo contesto è capitato ai bambini della scuola elementare di Dardania a Pristina, rientrando a scuola dopo le vacanze, di trovarsi di fronte ad un muro, costruito dai Serbi durante l’estate per separare i bambini albanesi dai bambini serbi.
Oggi nel nostro paese vi sono molti muratori, con la cazzuola già in mano, pronti ad erigere muri per creare uno spazio esclusivo dal quale tenere fuori gli albanesi, i negri, gli atei, i mussulmani, gli ebrei, i comunisti, i meridionali.
Noi quei muri non vorremmo che venissero costruiti perchè ci piacciono le differenze quando sono conviviali.
Pistoia 19 febbraio 1999.
Domenico Gallo
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[1] Nicola Colajanni, autonomia e parità nella scuola, In Quaderni di diritto e politica ecclesiastica , 1997, pag. 108
[2] FRIEDMAN, liberi di scegliere, Milano, 1994, pag. 170
[3] Piero Calamandrei, Scritti e discorsi politici, Vol. I, pag. 389, La Nuova Italia editrice, Firenze
[4] Nicola Colajanni, autonomia e parità nella scuola, In Quaderni di diritto e politica ecclesiastica , 1997, pag. 129