Sono stato a Pristina il 9 e 10 dicembre con una carovana di duecento italiani che avevano deciso di prendere a cuore le vicende del Kosovo, di interessarsi, mossi da quel grido di don Milani, I Care, della dura realtà di sofferenza e di ingiustizia che alimentava il conflitto. Una ingerenza umanitaria, dunque, attraverso gesti di amicizia. A Pristina abbiamo incontrato i rappresentanti delle istituzioni politiche, delle organizzazioni sociali, della stampa, delle Comunità religiose. In un centro culturale vicino allo stadio, abbiamo incontrato un gruppo di membri del parlamento albanese, eletti alle elezioni politiche del 1993, fra i quali Fehmi Agani, il mite intellettuale albanese, braccio destro di Rugova. Elezioni svoltesi clandestinamente, ma regolarmente, che hanno dato vita ad un Parlamento di 130 deputati, anch’essi clandestini, ma regolarmente insediati. Embrione di uno Stato nello Stato che gli albanesi avevano costruito faticosamente in 10 anni, in risposta alla arbitraria politica del nazionalismo serbo che dal 1989 li aveva esclusi dalla cittadinanza. Non erano clandestini invece i giornali albanesi, il loro Kosova information center, dove abbiamo partecipato ad una affollatissima conferenza stampa. Il 10 dicembre abbiamo tenuto un simposio, per celebrare il 50ennale della dichiarazione universale dei diritti umani, che si è svolto presso la facoltà tecnica dell’Università albanese, una facoltà che solo da alcuni mesi Milosevic aveva restituito agli albanesi, a seguito di un accordo sull’istruzione stipulato con i buoni uffici della Comunità di San Egidio, che per piegare Milosevic non ha avuto bisogno di utilizzare neanche una bomba. Celebrare la dichiarazione universale dei diritti umani a Pristina, luogo simbolo per eccellenza di conflitto e di tribalizzazione della concezione dei diritti dell’uomo, poteva apparire paradossale ed implausibile. Eppure l’aula magna era completamente gremita dagli studenti, che la assediavano. Gli studenti, assieme ai loro docenti e ai giornalisti, ci hanno ascoltato con attenzione, frementi di passione civile. Ci hanno applauditi entusiasti, anche se noi abbiamo espresso tutti dissenso dalla tragica scelta della lotta armata. Per la prima volta in un ambiente albanese nel Kosovo, ha preso la parola, con la garanzia della nostra presenza, una donna serba, Natascia Kandic, che ha denunziato con parole durissime la politica repressiva di Milosevic. Gli studenti hanno capito e le hanno tributato un trionfo di applausi.
Per tutta la mia vita non dimenticherò mai più qull’assemblea appassionata, non dimenticherò mai più i volti sereni degli studenti, orgogliosi della loro resistenza e fiduciosi in un avvenire migliore, non dimenticherò mai più i volti dei giornalisti, che ci intervistavano, fieri del loro ruolo, dei loro giornali, strumenti dell’identità di un popolo.
Siamo partiti da Pristina con l’angoscioso presagio che l’apartheid così denso ed insuperabile che si era creato fra le due comunità, poteva degenerare in un conflitto tremendo se la comunità internazionale, compresa la società civile e le Ong, non fossero riuscite a trovare la strada di una mediazione e di un confronto che aiutasse i due popoli ad uscire fuori dalla spirale violenta di un conflitto che li sfigurava entrambi. Mi è rimasta l’oscura sensazione di essermi affacciato alle soglie di un inferno.
Ricorrendo ai bombardamenti la NATO (che ha eliminato ogni altro intervento della Comunità internazionale, facendo ritirare gli osservatori dell’OSCE e i cooperanti delle ONG) ha deciso di abbandonare ogni ruolo di arbitro e di scagliare un nazionalismo contro l’altro introducendo la guerra come metodo e strumento per risolvere il conflitto fra i due nazionalismi.
Se ci si affida alla procedura della forza per risolvere i conflitti, la soluzione non sarà la vittoria della giustizia, ma la vittoria di quella parte che riesce ad essere più violenta dell’altra. Se la NATO riesce ad essere più violenta nei cieli poichè i suoi missili possono colpire indisturbati, i Serbi riescono ad essere più violenti in terra, poichè le forze di sicurezza yugoslave sono enormenente più potenti delle sgangherate bande dell’Uck. L’aggressione scagliata dalla NATO la sera del 24 marzo è stata la condizione ideale ed il pretesto imprescindibile per consentire ai nazionalisti Serbi il regolamento di conti finale ed il superamento del conflitto attraverso l’eliminazione dell’avversario. Lo ha già fatto Israele nel 1948. Lo Stato di Israele, aggredito, appena nato, dalle armate di 4 paesi arabi, ha approfittato della guerra per risolvere alla radice il conflitto con gli arabi, effettuando la pulizia etnica del suo territorio, ed espellendo 800.000 arabi palestinesi. Lo dimostra la storia del conflitto Yugoslavo, dal 1991 dove la guerra è stato al contempo lo strumento ed il contesto attraverso il quale ogni nazionalismo ha cercato di regolare i conti con il nazionalismo avversario attraverso la pulizia etnica.
Con questa scelta irresponsabile, si sono spalancate le porte dell’inferno ed il Kosovo ne è stato inghiottito.
Oggi mi sono riletto la tragica dichiarazione di guerra del Segretario generale della NATO, Javier Solana. La guerra è stata scatenata dalla NATO il 24 marzo per perseguire questi tre obiettivi.
1) accettazione del regolamento politico provvisorio che è stato negoziato a Rambouillet;
2) rispetto totale dei limiti imposte alle forze armate ed alle forze di polizia speciali serbe conformemente all’accordo del 25 ottobre;
3) arresto dell’uso eccessivo e spropositato della forza nel Kosovo.
Se qualcuno, per avventura, avesse voluto rendere per sempre impossibili questi tre obiettivi, avrebbe dovuto fare esattamente quello che ha fatto la NATO.
Oggi 1 aprile 1999, dopo una settimana di guerra, dopo che si sono scatenati tutti gli odi e tutte le vendette sono state compiute, dopo che quel popolo non esiste più ed è stato trasformato in un mare di profughi, dopo che le istituzioni albanesi (clandestine ma reali) sono state travolte, dopo che i giornali sono stati distrutti ed uccisi i giornalisti, dopo che i dirigenti politici della comunità albanese sono stati assassinati, cosa rimane più da rispettare? Quali limiti all’uso della forza si possono più imporre, adesso che la forza è stata dispiegata in tutta la sua tragica valenza? Cosa rimane più del trattato di Rambouillet, se non delle pagine insanguinate, che non potranno mai più essere attuate perchè non c’è più quel popolo che esse volevano garantire?
Non rivedrò mai più i volti orgogliosi degli studenti albanesi di Pristina, non rivedrò mai più i volti severi degli insegnanti, non rivedrò mai più i volti fieri dei giornalisti, non rivedrò mai più i volti miti degli intellettuali che hanno condotto la resistenza non violenta. Adesso quei volti sono insanguinati, sono stati trasformati in teschi, oppure nei volti angosciati dei profughi, relitti umani.
Con questa maledetta scelta della guerra abbiamo chiamato la Morte e l’abbiamo inviata in Kosovo, garantendogli una messe abbondante.
(Sintesi del discorso tenuto alla manifestazione contro la guerra svoltasi a Pistoia il 1/4/99)