Da quando lo statuto delle Nazioni Unite ha abrogato l’istituto giuridico della guerra (ius ad bellum) come esercizio lecito delle facoltà sovrane degli Stati, la guerra è stata posta fuori dal diritto. Tuttavia, poiché la guerra come fenomeno storico continua ad esistere, anche le operazioni belliche continuano ad essere sottoposte al diritto (ius in bello), seppure in modo quanto mai problematico.
Infatti, come ha rilevato il Tribunale permanente dei popoli (Afganistan II, 20.12.1982): “oggi si sa che la guerra è portatrice di una dinamica intrinseca che la spinge al di là di tutti i limiti nei quali ci si è sforzati di contenerla, e la rende inevitabilmente gravida di crimini di guerra e periò, per sé stessa criminale.”
I principi e le regole umanitarie del diritto bellico sono frutto di una lunga e sofferta elaborazione, fondata su costumi e regole consuetudinarie, che sconta il limite di fondo della imperfezione del sistema poiché, quanto più la Comunità internazionale riesce a configurare delle regole precise, tanto più diviene difficile assicurarne il rispetto per la loro incompatibilità con la logica intrinseca della violenza armata.
Attraverso il diritto bellico l’umanità manifesta la sua perenne aspirazione a liberarsi degli orrori dei conflitti armati, cercando di porre remore ed impedimenti giuridici al dispiegarsi incontrastato della violenza, pur essendo consapevole che, nel conflitto fra la forze ed il diritto è sempre quest’ultimo ad avere la peggio. Questa immanenza dei crimini di guerra avrebbe dovuto rendere particolarmente cauti coloro che si sono assunti la tremenda responsabilità di ricorrere ad uno strumento così tragico e distruttivo, qual’è appunto la guerra, per risolvere la crisi della convivenza fra Serbi ed Albanesi nel Kosovo. La guerra “umanitaria” combattuta nei balcani, si è rivelata un evento in cui le operazioni militari lanciate alla NATO appaiono svincolate dal rispetto degli obblighi giuridici derivanti dalle norme “umanitarie” del diritto bellico. Il diritto bellico moderno, per quanto riguarda la disciplina dei mezzi di condotta delle ostilità, si basa su tre regole fondamentali che sono espresse in questo modo nel I Protocollo di Ginevra del 1977:
a) “In ogni conflitto armato il diritto delle Parti in conflitto di scegliere metodi e mezzi di guerra non è illimitato”;
b) “è vietato l’impiego di armi proiettili e sostanze nonché metodi o mezzi di guerra capaci di causare mali superflui o sofferenze inutili”(art. 35);
c) “Allo scopo di assicurare il rispetto e la protezione della popolazione civile e dei beni di carattere civile, le Parti in conflitto dovranno fare, in ogni momento, distinzione fra la popolazione civile ed i combattenti, nonché fra beni di carattere civile e gli obiettivi militari, e, di conseguenza, dirigere le operazioni soltanto contro obiettivi militari” (art. 48).
Questi concetti non devono essere ben chiari agli strateghi della NATO, che in più di una occasione hanno rivolto attacchi addirittura contro obiettivi esclusivamente civili. Il caso più clamoroso è la strage dei giornalisti della TV di Stato Serba, attuata nella notte fra il 22 e 23 aprile, scagliando dei missili contro l’edificio che ospita gli studi della Televisione, quando le trasmissioni erano in corso. Il fatto che la NATO abbia dichiarato la TV obiettivo militare, se, per un verso, è rivelatore della singolare concezione della libertà di stampa praticata dai vertici dell’Alleanza, per altro verso non può cambiare natura ai giornalisti che, ai sensi dell’art. 79 del I Protocollo di Ginevra devono essere considerati civili, contro i quali non è lecito condurre attacchi armati.
Le altre stragi di civili non sono state rivendicate dalla NATO come azioni legittime di guerra, ma sono state giustificate come frutto di errori o di “danni collaterali”. Tuttavia dopo l’ultima strage di profughi albanesi, avvenuta a Korisa, la NATO ha cambiato registro, rifiutando di riconoscere la strage come frutto di errore, per la allegata presenza nel villagio di uno o due cannoni delle forze armate serbe ed ha affacciato l’ipotesi degli “scudi umani”. Se ci fosse uno straccio di verità in questa aberrante teoria, non per questo l’attacco si potrebbe considerare lecito, in quanto il diritto bellico vieta gli attacchi che “possono provocare una combinazione di perdite umane e di danni, che risulterebbero eccessivi rispetto al vantaggio concreto e diretto previsto” (art. 51 del I Protocollo di Ginevra.). Poiché la guerra è stata scatenata per difendere i diritti umani degli albanesi, sarebbe veramente implausibile pretendere che la vita di 100 albanesi vale meno….di un cannone.
Per quanto riguarda il divieto di impiegare armi atte a causare mali superflui, tale principio seppure sviluppato in modo paradossale, tanto che attualmente è proibito l’uso delle frecce avvelenate, ma non è proibito – esplicitamente – l’uso delle armi nucleari gioca comunque un ruolo nei conflitti. Esso impedisce l’uso di alcune categorie di armi particolarmente pericolose, come i gas asfissianti e le armi batteriologiche (oggetto di apposite convenzioni) e limita fortemente l’uso di un tipo di arma (le c.d. bombe a frammentazione) a cui la NATO, invece, ha fatto ricorso in modo indiscriminato, in violazione della Convenzione di Ginevra del 10 ottobre 1980 (ratificata in Italia con legge 14/12/1994 n. 715), provocando – fra l’altro – una strage al mercato di Nis la mattina del 6 maggio. Lo stesso discorso può farsi per l’uso dei proiettili contenenti uranio impoverito. Questo tipo di arma, infatti, per le conseguenze dannose che provoca sull’ambiente, colpisce in modo indiscriminato e causa necessariamente delle sofferenze superflue poiché provoca dei danni alla popolazione ed ai belligeranti, anche quando la guerra è finita (si pensi alla c.d. Sindrome del Golfo). In ogni caso l’uso massiccio dell’uranio impoverito comporta una modifica dell’ambiente ai fini militari, come tale vietata dalla Convenzione di New York del 10 dicembre 1976 (ratificata in Italia con legge 29/11/1980 n. 962).