La Convenzione di 62 esperti incaricata di scrivere una Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea ha tempestivamente concluso i suoi lavori. Il testo della Carta – sul quale in ottobre a Biarritz e in dicembre a Nizza dovranno pronunciarsi i 15 governi della comunità – rispetto al progetto reso noto in luglio, presenta numerosi, significativi, miglioramenti. E’ certamente superfluo discutere oggi se anche il testo di luglio fosse un ragionevole compromesso e una difendibile base, nel complesso, per promuovere un “modello sociale europeo”. Partiamo, invece, da quel che, nel frattempo, si è acquisito e da un giudizio di insieme sulla Carta.
La Carta non è, nè poteva essere – visto il mandato molto restrittivo della Convenzione – lo schema di una futura costituzione europea: il suo fine prevalente rimane quello della definizione, in un organico e solenne Bill of rights, delle prerogative irrinunciabili che derivano dall’appartenenza ad uno dei paesi aderenti all’Unione. Va quindi innanzitutto giudicata su questo terreno che non coincide con l’intera area in genere coperta dalle Costituzioni contemporanee che introducono anche principi, valori, obiettivi sociali, nonchè procedure e criteri organizzativi per i pubblici poteri. Ora, per quanto alcune scelte siano sicuramente discutibili, la Convenzione ha elaborato un testo che contiene un elenco esaustivo e completo di tutti i principali diritti civili e delle libertà della tradizione liberale (consacrate nella Convenzione di Roma del 950) nonché dei più importanti diritti socio-economici e di molti diritti cosidetti di terza generazione (dalla tutela della riservatezza, alla difesa dell’ambiente, alla protezione del consumatore, alle nuove “libertà” comunicative su Internet). Alcune di queste prerogative sono ignorate anche da Costituzioni “lunghe” come la nostra che non protegge direttamente, come invece fa la Carta, contro il licenziamento ingiustificato e che non accorda ai sindacati il diritto di informazione. Tantomeno la nostra Costituzione stabilisce contro l’esclusione sociale, come fa l’art. 34 della Carta, “il diritto all’assistenza sociale e abitativa volte a garantire un’esistenza dignitosa a tutti coloro che non dispongono di risorse sufficienti” , una forma di garanzia dello ius vitae che il legislatore italiano si ostina (ignorando i richiami in tal senso del Parlamento europeo) a negare ai disoccupati di lungo periodo.
Il reddito “minimo” costituisce per moltissimi autori, delle più varie scuole, da Gorz a Beck, da Giddens a Baumann, da Offe a Caillè, da Ferrajoli a Liepitz, da Rawls a Habermas, il nucleo razionale dello stato sociale in epoca post-fordista. Il nuovo testo ha corretto in senso garantistico molti passaggi della Carta, accogliendo così alcune critiche sollevate in questi mesi, anche sul manifesto, dall’associazionismo di base. Figura oggi nell’elenco delle prerogative protette dall’Unione il diritto al lavoro e il diritto di sciopero. Il riconoscimento, senza specificazioni di sorta, della libertà di impresa nel testo di luglio è oggi ammesso “conformemente al diritto comunitario e alle legislazioni e prassi nazionali”, il che assume le restrizioni previste dalle Costituzioni di acuni paesi. Compare inoltre l’aggettivo “gratuito” accanto al diritto di accesso ai servizi all’impiego e all’istruzione obbligatoria. Mentre in luglio erano assicurati le prestazioni di sicurezza sociale e i benefici sociali per i cittadini degli stati membri che risiedessero in altri stati, oggi tale diritto riguarda ogni individuo che “risieda o si sposti legalmente nell’Unione”; una norma di elementare quanto inedita civiltà, in favore degli immigrati. Si stabilisce, infine, che qualsiasi limitazione all’esercizio dei diritti e delle libertà della Carta ne deve rispettare il contenuto essenziale. Questi decisi miglioramenti (molti dei quali dovuti all’impegno e all’ostinazione di Elena Paciotti e di Stefano Rodotà) contribuiscono a rendere la ratifica ufficiale della Carta un’occasione storica che la sinistra italiana, inclusa quella radicale che si riconosce nel movimento contro la globalizzazione selvaggia di Seattle e Praga, non può trascurare.
Il solenne riconoscimento che questo insieme di prerogative, tra le quali non è istituito alcun rapporto gerarchico, compone la “dote” della cittadinanza dell’Unione rappresenterebbe un fatto di enorme importanza nella storia della Comunità, uno “strappo”, le cui conseguenze sono oggi del tutto imprevedibili, rispetto all’assoluta preminenza sin qui accordata in ambito europeo ai valori di libero mercato santificata con il Trattato di Maastricht (e solo marginalmente attenuata con il Trattato di Amsterdam). Su Le Monde dell’8 Ottobre il giurista L. Cohen-Tanugi ha correttamente sostenuto che le formulazioni che riguardano in specifico i diritti sono in genere chiare e rigorose e quindi sono suscettibili di una futura elaborazione giurisprudenziale; la loro lettura “conferisce un senso di fierezza d’essere europei”. Si andrebbe delineneando in alternativa a quello anglo-americano un “modello europeo” incentrato, sul piano del welfare, nella garanzia pubblica della salute e dell’istruzione primaria e nel contrasto della povertà; sul piano lavoristico, nella protezione contro i licenziamenti e nel principio di giuste condizioni di lavoro; sul piano dei diritti civili, nella probizione della pena di morte e nel diritto ad un giusto e sollecito processo.
Sono tutti aspetti essenziali che connotano la dimensione sostanziale dell’appartenenza ad una comunità politica e definiscono pre-condizioni indispensabili del gioco democratico. Una tale completezza di garanzie primarie costituisce un risultato che non era affatto scontato: l’ostilità di paesi come la Gran Bretagna o la Spagna è stata, a fatica, respinta e continuerà a pesare quando si discuterà l’efficacia giuridica della Carta. La situazione era così difficile da spingere R. Badinter, ex ministro di Mitterand e grande protagonista dell’abolizione della pena di morte in Europa a ammonire su Le Monde del 20 Giugno che “per la Francia una Carta priva del riconoscimento dei diritti sociali, costituisce non già l’affermazione di un progresso, ma l’espressione di un arretramento rispetto ai nostri valori fondamentali di solidarieà e di giustizia sociale”. Certo si tratta di una Carta octroyèe, in un’Europa che sembra lentamente risvegliarsi dal lungo sonno liberista, che non è il frutto di un ciclo vittorioso di lotte sociali: è assente una volontà popolare di investitura democratica, un’assemblea costituente. Questo orizzonte anomalo, nel quale agiscono istituzioni comunitarie di dubbia democraticità e prive di un raccordo univoco con istanze elettorali, sembra aver condizionato proprio le parti programmatiche e “ideali” della Carta, nelle quali l’Unione è talvolta concepita come spazio degli affari talaltra come comunità politica fondata su valori di giustizia e equità sociale. Mancano, è vero, una norma sulla eguaglianza sostanziale e il ripudio della guerra come mezzo di risoluzione delle controversie tra stati, anche se l'”eliminazione delle diseguaglianze” rientra già tra gli obiettivi dell’Unione (anche il preambolo della Carta definisce l’Unione come uno spazio di “giustizia”) e numerosi riferimenti alla pace e al rispetto dei principi del diritto internazionale figurano nel preambolo e nei Trattati. Ma proprio questo mi pare il punto. Nessuno potrebbe negare la logica puramente economica secondo la quale è proceduta la costruzione europea (la mancanza di vincoli di carattere sociale al dispiegarsi delle dinamiche di mercato). Per dirla con Jürgen Habermas il prevalere delle ragioni dell’integrazione “sistemica” su quelle dell’integrazione “sociale”. L’opinione di Pierre Bourdieu secondo il quale, poichè nel vecchio continente il liberismo è concetto indigeribile, i governi lo avrebbero sostituito con il termine “europa” bene esprime un atteggiamento molto diffuso, anche a sinistra, che considera l’unificazione come un folle volo verso la piena adesione al modello economico anglo-americano, un modo per gli stati nazionali di congedarsi sotto mentite spoglie dai valori e dagli obblighi del welfare state. In parte, oggi, questo giudizio appare unilaterale: obiettivi sociali e nuovi poteri di intervento nell’economia sono stati introdotti per gli organi comunitari con Amsterdam (in vigore da poco più di un anno), il capitolo del diritto del lavoro comunitario si è arricchito di numerose direttive (dalla disciplina del part-time, dei contratti a termine e del temporary work ai congedi parentali, dal tema della sicurezza all’orario di lavoro); la Corte di giustizia ha mostrato una maggiore attenzione nella tutela dei diritti di stampo non liberale. Rimane vero che tutto ciò è di gran lunga insufficiente e che l’effetto complessivo del diritto di matrice comunitaria è la limatura di quelle garanzie che molte Costituzioni istituiscono come limiti al mercato. I singoli vengono così esposti agli effetti delle politiche dell’Unione senza che a questo livello possano godere non solo di adeguati processi di controllo democratico sui processi decisionali, ma neppure di strumenti idonei di protezione giuridica.
Forse ancor più che negli Usa (dove almeno esiste un governo elettoralmente responsabile) questa situazione si avvicina al sogno dei pensatori dello “stato minimo”: una regolazione spontanea del mercato che non è sovrastata nè da criteri di giustizia sociale nè indirizzata dalla volontà parlamentare dei cittadini. Arroccarsi nel “patriottismo della costituzione” in un paese solo sarebbe, però, non solo irrealistico, ma anche regressivo. Politiche sociali e egualitarie sono ormai difficlmente concepibili nei confini dei paesi europei. Oggi il governo francese gode del successo delle misure adottate in favore dell’occupazione e della parte più svantaggiata della popolazione, ma gli analoghi progetti riformistici di Mitterand (che non godeva dello scudo protettivo dell’euro) furono travolti dalla speculazione sul franco.
Inoltre il ripiegamento in difesa delle singole Costituzioni, in un contesto economico ormai pienamente integrato a livello continentale, finisce con l’assumere le particolarità lingistiche, culturali, se non etniche, come giustificazione di una più intensa protezione. La Corte costituzionale tedesca in una storica, molto lodata anche a sinistra, sentenza del 1993 sulla legittimità del Trattato di Maastricht, pur mossa dalle migliori intenzioni di denuncia del deficit democratico dell’Unione, giunse in uno sfortunato passaggio a sostenere che una lingua e una cultura comune sono presupposti irrinunciabili di un ordinamento costituzionale compiutamente sviluppato. Ebbene il fascino di questo primo concreto tentativo di costruzione di una solidarietà – fondata sull’eguaglianza dei diritti di base – che trascenda le specificità nazionali nasce proprio dal rifiuto di una meschina logica di appiattimento del demos sull’ethnos. Non possiano tornare, neppure in nome della tutela dei diritti fondamentali, con De Maistre a sostenere che non esistono individui, ma solo francesi, tedeschi, italiani e così via.
La Carta è quindi, con tutti i suoi limiti, il primo significativo passo che si tenta in Europa per governare e superare la dimensione puramente funzionalista di tipo economico; rappresenta un ragionevole (e necessariamente come tutti i patti fondativi compromissorio) punto di inizio per la piena operatività di un “codice ” dei diritti che faccia da contraltare a quello del profitto. Anche se il vertice di Nizza dovesse ratificarla tramite una mera dichiarazione politica, la Corte di giustizia europea potrebbe, già nell’immediato, basare il suo ruolo di custode dei diritti fondamentali (accanto a quello di custode dei Trattati) su di un elenco completo e accettato per unamine consenso dagli stati dell’Unione. Una volta approvata si potrà, poi, mutare la Carta nelle sue parti più arretrate e, soprattutto, la si potrà impugnare come leva per una riforma complessiva dei Trattati. E’ vero che i diritti che l’Unione si accinge a riconoscere possono essere soffisfatti solo nel rispetto del patto di stabilità, il che li rende prerogative derogabili e non assolute, ma proprio la ratifica della Carta porterebbe a far esplodere la contraddizione tra le esigenze delle “garanzie” e quelle dell'”efficienza economica” sino ad oggi prevalente nei Trattati. Hic Rhodus hic salta.