La nostra umanità, la nostra cultura, la nostra politica sono sconfitte dagli eventi che ogni giorno di più insanguinano e sfigurano Gerusalemme, Israele e la Palestina. Gerusalemme sta diventando motivo di rossore per il mondo intero; una città non da ammirare, ma da cui distogliere lo sguardo, non cui salire, ma da cui fuggire, non da ricordare, ma da dimenticare, come infatti è dimenticata dall’Europa, che sulla Palestina ha scelto il silenzio; essa, cercando la sua identità nella sua moneta e nella sua difesa, non trova un gesto e una parola per fermare il conflitto che sta dilaniando i due popoli e li lascia senza scampo.
A guardare le cose da lontano, si potrebbe dire che nulla potrebbe accadere di peggio di ciò che già accade; Israele è stata contagiata da una sindrome di paura e di onnipotenza insieme che l’ha portata a scelte politiche estreme, i palestinesi hanno patito nell’esperienza della vita quotidiana il fallimento del processo di pace e l’hanno tradotta in resistenza e rivolta; le colonie si armano e si fortificano; il territorio palestinese è smembrato, le città e i villaggi vengono circondati da fossati e trincee, assediati e trasformati in carceri a cielo aperto, le case sono bombardate e demolite; siamo arrivati al punto che il Patriarca latino di Gerusalemme, Michel Sabbah, nella sua lettera quaresimale, dice agli israeliani: “distruggete le nostre chiese, ma risparmiate le case dei nostri fedeli. Se ad ogni costo dovete imporre una punizione collettiva e se si deve pagare il riscatto per riacquistare la tranquillità dei figli innocenti e delle famiglie, noi offriamo le nostre chiese: distruggetele, troveremo altri luoghi per pregarvi e continueremo a pregare per noi e per voi”; e dice ai palestinesi che sparano contro gli israeliani dalle case abitate di “non trasformare le case tranquille in una prima linea, obbedite agli ordini, conservate la coesione della società palestinese e risparmiate le case degli innocenti”. E mentre offre le chiese come prezzo di riscatto, per tutte le case che si vuole demolire (e le chiese, lì, vuol dire perfino la chiesa del Calvario), il Patriarca chiede agli israeliani, “a colui che ci opprime” di restituire la terra ai proprietari e ridare loro la libertà, ricordando quando essi stessi hanno rivendicato la loro libertà e hanno “lanciato lo stesso grido dell’oppresso”.
Quando si arriva a questo punto, vuol dire che ogni altra realtà scompare, e resta solo la realtà di un inarrestabile processo di produzione di vittime, nel quale tutti sono coinvolti, ognuno si fa male e riceve male, e mentre resta ben chiara la distinzione tra oppressori ed oppressi, ambedue i popoli corrono verso l’autogenocidio. Mentre bisogna dire con forza che le vittime non sono mai necessarie.
In questa situazione, pur potendosi proporre e cercare le vie, le formule giuridiche e istituzionali per una pace giusta e una soluzione politica, che sicuramente sono possibili, noi comprendiamo che queste non possono essere indicate dall’esterno, che anche il giudizio deve essere trattenuto, che non si può chiedere la non violenza a chi resiste, né si può chiedere a chi occupa di credere improvvisamente nel buon vicinato.
Però diciamo: prima di tornare indietro, potete intanto fermarvi; non far alzare gli elicotteri, non far muovere i carri, non far scattare il grilletto, trattenere le pietre.
E prima di tornare a discutere dell’assetto definitivo, sovranità, terre, colonie, capitale, acque, rapporti tra i due Stati, profughi, ricominciate dai diritti, da un reciproco riconoscimento dei diritti fondamentali, di quei diritti che la comune civiltà ha ormai affermato come appartenenti ad ogni essere umano, di qualunque Stato sia cittadino, a qualunque ordinamento appartenga, in qualsiasi condizione politica si trovi, in qualunque città o villaggio abiti, quale che sia la sua razza, religione, sesso, lingua e cultura. Riconoscetevi intanto, lì dove siete, il diritto alla vita, all’integrità e alla salute, il diritto alla casa, il diritto al cibo, il diritto alla libertà personale, il diritto di camminare per le strade, il diritto di comunicare, il diritto di lavorare, il diritto di non essere puniti per colpe non commesse, per comportamenti collettivi, il diritto di crescere i figli, il diritto di non vedere ad ogni angolo di strada, ad ogni checkpoint, ad ogni fermata di autobus il proprio assassino.
Sono questi i diritti che l’umanità ha atteso per secoli, che gli ebrei hanno sognato nei ghetti d’Europa e nei campi di sterminio, che i palestinesi si prefigurano quando rivendicano il loro Stato, inteso come la condizione per goderne.
Ricominciate dai diritti; decidete, ciascuno per sé, di rispettarli negli altri, e fate un patto di garantirveli a vicenda, fin da ora, e nei rapporti futuri tra le vostre due società. Fatta questa rivoluzione, il resto verrà.
Sarebbe una lezione anche per l’Europa, che proprio nel mettersi al servizio dei diritti di tutti, e non con la guerra, potrebbe ritrovare il suo ruolo nel Mediterraneo e nel mondo. A tal fine dovrebbe attivarsi un’iniziativa popolare di base, anche con la istituzione, dovunque sia possibile, di gruppi di osservazione e di informazione sulla crisi del Medio Oriente.
Roma, 4 aprile 2001
Il Comitato per la democrazia internazionale