Associazione per il Rinnovamento della Sinistra
La ricostruzione della sinistra nell’opera di Sergio Garavini
Domenico Gallo
La lotta per la Democrazia possibile nel contesto della crisi italiana
Garavini è stato uno dei più appassionati e tenaci costruttori della democrazia nel nostro paese. Attraverso il suo generoso, lunghissimo e coerente impegno politico, a partire dalla Resistenza, alla quale ha partecipato giovanissimo, Sergio ha dato sostanza, carne e sangue, alle condizioni della democrazia nel nostro paese, costruendo ogni giorno quei percorsi di solidarietà e di partecipazione popolare che sono lo strumento fondamentale per inverare la promessa dei padri costituenti di “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese.”
Della democrazia incarnata, disegnata nella Costituzione italiana, Garavini è stato uno dei principali costruttori ed uno dei più autorevoli difensori.
Garavini è stato una delle sentinelle che hanno scrutato i segni della crisi della democrazia politica maturata lungo il tunnel degli anni 80 ed esplosa con l’89.
Per Garavini l’essenza della democrazia politica è la partecipazione ed il significato di un moderno discorso socialista è quello di “fare appello alla soggettività sociale, portarla verso la conquista degli spazi occupati dalle istituzioni, proiettarla in forme reali di autogestione sociale e di partecipazione democratica”[1] Di qui la critica – che rappresenta un motivo dominante del pensiero e dell’impegno politico di Sergio Garavini – allo statalismo delle sinistre e la sua proposta prioritaria di tornare nella società.
Garavini si rende conto che il punto di caduta del progetto di democrazia scaturito dalla Costituzione del 47 è nella crisi del partito politico di massa, concepito, nel disegno costituzionale, come la linfa vitale, il principale connettore, fra le istituzioni e la società dei cittadini, la fornace che alimenta la democrazia politica e porta lo Stato nella società e la società nello Stato. Ed egli giustamente percepisce la crisi del partito come crisi della democrazia. Di fronte alla avventatezza della liquidazione della esperienza storica e della forma partito del PCI, operata da Occhetto su un progetto improvvisato [2], la scelta di operare la rottura di Rifondazione non nasceva – a differenza di altri – da una sorta di mistica del comunismo, ed era scevra da ogni connotato di integralismo politico. L’ipotesi di fondo era quella di recuperare il carattere partecipatorio delle esperienze politiche di massa vissute nel PCI, unificate dal richiamo simbolico alla stessa denominazione comunista, che per questo non poteva essere abbandonata. Nel progetto originario di Rifondazione comunista Garavini metteva l’accento sul sostantivo “rifondazione”, piuttosto che sull’aggettivo “comunista” e concepiva la forza nascente di tale progetto “nell’impegno non solo di distinguersi dal PdS, ma di delineare il più vasto schieramento politico e la maggiore partecipazione di massa per un nuovo orientamento di riforma del sistema che passasse attraverso un modello non statalista, ma di partecipazione.”[3]
Ed è proprio su questo terreno che vengono le note dolenti ed è qui che si consuma la parabola dell’esperienza di Sergio Garavini come leader di Rifondazione. L’esigenza fondamentale di Garavini è di superare l’isolamento: “superare l’isolamento per me non significava essere in qualche modo tollerato in una coalizione, ma tentare di promuovere un nuovo grande movimento di riforma e di cultura, capace di sburocratizzare la politica e di contribuire ad un nuovo slancio delle organizzazioni di massa.”[4]
Il lancio della “Convenzione per l’alternativa” si fondava su un progetto di “evoluzione del partito oltre la sua struttura, promotore e punto di riferimento di un processo non solo di tradizionali lotte sociali, ma di una nuova e vasta rete di partecipazione, capace di offrirsi come interlocutore al mondo dell’arte…di riattivare l’iniziativa contrattuale.. di lanciarsi nell’impegno delle organizzazioni di solidarietà sociale, di aprire nuovamente il capitolo della scuola e della cultura”.
In quest’ottica quello che contava non era tanto l’esigenza di costruire uno schieramento più ampio, bensì quello di “proporre un soggetto politico in grado di svolgere una mediazione reale fra la società e le istituzioni.” [5]
Questo progetto non presupponeva lo scioglimento del partito, accusa di cui fu ingiustamente incolpato Garavini, ma certamente una sua profonda metamorfosi. L’interrogativo che poneva Garavini sullo sfondo della grave crisi della democrazia italiana, contrassegnata dalla caduta e dallo smantellamento per via giudiziaria del vecchio ceto dirigente e delle preesistenti strutture di partito, era quello se i comunisti “potevano e dovevano spendersi nella costruzione di un grande movimento riformatore oppure chiudersi in un ambito di partito forte ma pur sempre ristretto.”
La sfida che Garavini aveva posto evidentemente era troppo radicale per poter essere compresa, percuoteva e metteva troppo in discussione coloro che preferivano navigare nelle acque calme del proprio orticello, protetti dagli steccati di partito. Invece per Garavini il problema non era soltanto di preservare e di coltivare lo spazio politico di un partito, piccolo, per quanto forte di un radicamento sociale genuino, ma di far si che quel partito diventasse il perno, il motore, l’asse di un nuovo progetto riformatore, capace di dare una risposta politica alla crisi dell’89 aprendo una nuova stagione di partecipazione come unico possibile antidoto alla nuova stagione di riduzione della democrazia annunziata nella mistica della grande riforma istituzionale.
Garavini aveva compreso che una linea di semplice resistenza ai progetti di trasformazione ed involuzione espressi dalla marcia verso il maggioritario, trionfata con il referendum del 1993, e dalle ricorrenti aspirazioni al Presidenzialismo, non avrebbe di per sé potuto bloccare questo processo. Perché quei progetti e quelle riforme rispondevano ad una esigenza reale dell’asfittico sistema politico italiano, così come si era venuto delineando dopo la crisi dell’89. Garavini era consapevole che le proposte di sistema elettorale maggioritario, seppure finalizzate al potere ed alla stabilità dell’esecutivo, erano soprattutto rivolte a “consolidare e potenziare la forma attuale dei partiti, i quali hanno sempre più perduto il carattere di formazione democratica di massa, per accentuare il ruolo dominante dei gruppi dirigenti e dei leaders in stretta relazione con i poteri istituzionali a tutti i livelli. Ai partiti – osserva Garavini – si garantisce una rappresentanza nel Parlamento designata e gestita dai gruppi dirigenti, insindacabile dagli elettori, che possono solo votare o la singola persona nei collegi uninominali o così com’è la lista di partito nel voto proporzionale. Vi è su questo punto, di fatto, l’accordo generale, perché questa soluzione propone una fuga alla crisi dei partiti come forme di democrazia di massa, come espressione diretta ed organizzata di esigenze della società, dunque di mediazione reale fra la società e le istituzioni. E ne convalida e cristallizza sia il ruolo integralmente di potere istituzionale, sia il regime interno di autorità dei gruppi dirigenti e dei leaders ”[6]
Ancora alla guida di Rifondazione Garavini partecipò alla battaglia per referendum elettorale del 1993, consapevole che il no sarebbe stato sconfitto ma che non si sarebbe trattato, comunque, di una battaglia persa.
E tuttavia – a differenza di altri – Garavini si rese perfettamente conto che l’introduzione del sistema maggioritario, sancita dalle elezioni politiche del marzo 1994, comportava un mutamento effettivo del quadro politico e delle istituzioni, un ridimensionamento drastico della rappresentanza sociale nelle istituzioni. Di qui la rinnovata esigenza di costruire uno schieramento riformatore, vasto articolato e radicato nella società, che Garavini sentiva come essenziale per mantenere aperta la porta, il canale di comunicazione fra le istituzioni (che altri volevano sempre più impermeabili al potere popolare) e la società.
In effetti il grandioso movimento popolare, sviluppatosi nell’ottobre del 1994, in opposizione alla annunziata riforma delle pensioni del governo Berlusconi, e culminato il 12 novembre nella più imponente manifestazione sindacale della storia della Repubblica, non aveva soltanto provocato la crisi del primo governo Berlusconi, ma aveva fatto emergere una reale (anche se effimera) inversione di tendenza rispetto alla fuga dalla partecipazione ed alla desertificazione della politica portata avanti dai costruttori delle riforme istituzionali, dimostrando che all’inizio del 1995 i giochi erano ancora aperti e che la crisi italiana poteva avere uno sbocco politico-istituzionale diverso.
Sulla scia di questi avvenimenti Garavini aveva promosso un coordinamento a cui aderivano parlamentari del PdS, dei Verdi, della Rete e di Rifondazione comunista, denominato Unità Progressista. Questo coordinamento si proponeva di raccogliere la sfida che nasceva dai bisogni e dalle domande popolari, così tumultuosamente emerse durante l’ottobre rosso del 1994, e tradurle in una dimensione programmatica, e perciò politica, comune, rinsanguando l’asfittica area delle sinistre raccolte sotto il simbolo dei progressisti. La caduta del governo Berlusconi e le vicende della transizione che seguirono fecero rapidamente crollare l’illusione (o la speranza ) di una posizione comune di tutti i c.d. progressisti, che mettesse a frutto la lezione dell’ottobre. Ma questo non significa che quell’esperienza sia stata inutile. Piuttosto da quell’esperienza venne fuori una drammatica rottura che servì a superare uno degli snodi più difficili della crisi italiana, rendendo possibile la transizione fuori dal berlusconismo reale e l’apertura di una fase nuova, di un nuovo ciclo politico che le elezioni del 13 maggio del 2001 hanno definitivamente chiuso.
Forse non tutti ricordano che l’allontanamento dal potere di Berlusconi e delle sua corte dei miracoli fu un evento per niente scontato, gravido di rischi e del pericolo reale di un ritorno all’indietro. Per tratteggiare quell’epoca e quel clima è utile richiamare un editoriale di Eugenio Scalfari apparso su Repubblica del 8 gennaio 1995. “Stiamo assistendo allo spettacolo di un presidente del Consiglio dimissionario perché sfiduciato dalle Camere, che si proclama l’unica fonte di diritto pubblico, anche al di sopra della costituzione, mentre il capo degli ex fascisti accusa Scalfaro di golpismo per il semplice fatto di esercitare con grande correttezza i poteri ed i doveri che la costituzione gli conferisce…Berlusconi e Fini hanno già detto che la sfiducia del Parlamento al Governo non può avere altro effetto se non quello dello scioglimento immediato delle Camere ed hanno intimato al Presidente della Repubblica di attenersi a questa loro prescrizione. Hanno aggiunto che se non lo farà sarà considerato un golpista.”
Berlusconi e Fini volevano giocarsi la carta della rivincita e pretendevano lo scioglimento immediato delle Camere, per presentarsi alle elezioni conservando il vantaggio del controllo di tutte le reti televisive, pubbliche e private, e delle altre posizioni di potere acquisite durante sei mesi di occupazione delle istituzioni, oltre che per anticipare i risultati delle indagini portate avanti dalla magistratura. Quel progetto non andò in porto perché si scontrò con la resistenza di Scalfaro che – a differenza di altri Presidenti – interpretò impeccabilmente il suo ruolo di supremo garante della Costituzione. Tuttavia il progetto di Scalfaro di depotenziare la virulenza del polo e di guidare il paese verso le elezioni in una situazione di ritrovata normalità in cui la dialettica politica potesse svolgersi in condizione di parità (la c.d. par condicio) stranamente incontrò ostacoli proprio in quella parte politica che – invece – avrebbe dovuto favorirlo. Il gruppo dirigente di Rifondazione, per una volta coeso nella sue due principali componenti, si mise di traverso. Evidentemente l’opzione di aprire un conflitto con la sinistra moderata, sulla base della teoria delle due sinistre, fu considerata più conveniente, ai fini di partito, dell’opzione propugnata da Garavini di lavorare per costruire un ampio schieramento riformatore, capace di proporre una proposta di governo e di assicurare la tenuta della democrazia italiana di fronte all’aggressione della destra nelle nuove condizioni imposte dalla globalizzazione.
Per la sua concezione della democrazia e del socialismo Garavini guardava alla società più che allo Stato e non era ossessionato dalle alchimie del potere nelle quali si cimentavano i rinnovatori dell’89. Proprio per questo si rendeva conto che l’avvento di questa destra al governo, in questo contesto internazionale, sarebbe stato una catastrofe politica in quanto avrebbe inciso profondamente sulla cifra democratica della Costituzione del 47, pregiudicando proprio la possibilità di mantenere aperti i percorsi di comunicazione fra la società e lo stato. Bisognava mantenere aperta quella porta, che molti, a destra come a sinistra, volevano chiudere. Occorreva, perciò, anteporre il benessere delle istituzioni ad ogni, sia pur legittimo, interesse di partito.
Su questo terreno Garavini fu capace di andare avanti a costo di una rottura definitiva col partito del quale era stato segretario. Garavini andò da Scalfaro è gli assicurò il suo appoggio e quello di un gruppo di parlamentari, piccolo ma decisivo, al tentativo di dar vita ad un governo di transizione. Quando nel marzo del 1995 Fini e Berlusconi scatenarono l’agguato al Governo Dini per ottenere lo scioglimento immediato delle Camere ed il ritorno alle urne in una drammatica condizione di emergenza economica, che aveva visto il marco arrivare quasi a quota 1300 ed il tasso di interesse dei titoli di Stato superare il 13%, il loro progetto si infranse e non passò grazie anche al coraggio, alla determinazione ed all’impegno controcorrente di Sergio Garavini, che per quell’impegno pagò un prezzo durissimo in termini di emarginazione politica. Eppure è proprio li, in quel voto, il 16 marzo del 1995, frutto di una testarda battaglia condotta da Sergio Garavini, che si colloca il punto di svolta che consentirà nell’aprile del 1996 ad una coalizione elettorale che comprendeva tutte le forze democratiche di superare di stretta misura il polo e di concedere al nostro paese una chance di altri 5 anni per uscire dall’emergenza, recuperare la partecipazione e sviluppare la democrazia.
Guardando le cose a ritroso, adesso è fin troppo facile concludere che quel tempo è stato dissipato e quella chance è stata sprecata.
Il divorzio di Rifondazione dalla maggioranza nell’ottobre del 1998 ha sancito l’inesistenza di un programma comune della sinistra, che l’accordo di desistenza elettorale del 1996 non aveva neanche tentato. Garavini si rendeva conto che tale rottura non apriva nessuna strada e non portava da nessuna parte. Infatti ha osservato: “Al momento in cui non si è sviluppata una proposta alternativa di programma e di alleanze, la rottura nella sinistra è arbitraria, realizza soprattutto bisogni di identità di partito. La via della rifondazione non è stata percorsa”.[7]
Questa nuova situazione ha comportato uno sbandamento a destra della maggioranza, con l’ingresso di Cossiga e Scognamillo, la cui unica funzione è quella di garantire l’assoluta fedeltà dell’Italia e la collaborazione con gli Stati Uniti nella inutile e catastrofica guerra dei Balcani. Queste circostanze hanno consentito al Premier D’Alema di fregiarsi della considerazione di massima affidabilità da parte dei comandi NATO e della Presidenza degli Stati Uniti, come egli stesso ci racconta nella sua illuminante intervista sul Kosovo, raccolta da Federico Rampini. Tuttavia il popolo italiano non ne ha tratto un gran vanto, tantomeno il popolo di sinistra, che, nelle elezioni intermedie, ha disertato le urne ed ha voltato le spalle ai partiti di sinistra.
La sonora sconfitta dei maggioritari al referendum elettorale del 21 maggio 2000, ha gettato nello sconforto la sinistra moderata ma è stata percepito come un evento liberatore da Garavini che, pur essendo presidente del comitato per il no al referendum sui licenziamenti, si era impegnato a fondo anche nel Comitato per il no al referendum elettorale. Egli non interpretava il 21 maggio 2000 come preludio della sconfitta alle politiche del 2001, bensì come un formidabile evento di verità che, se assunto e compreso da tutti per tempo, avrebbe potuto stimolare una inversione di rotta e sbarrare la strada all’avvento della destra. In effetti il referendum indicava che era giunto a conclusione un ciclo politico, iniziato con la svolta di Occhetto nell’89 e proseguito, con maggior zelo, dai suoi successori che ha smantellato il sistema partito come luogo di partecipazione di massa e di educazione democratica; ha smantellato la cultura della solidarietà e dei diritti che faceva da aggregante del partito di massa; ha smantellato il sistema dei valori, cioè dei significati che organizzavano l’agire politico, riducendo la politica a lotta di elitès e consegnandola nella dimensione della più totale anomia.
Nello stesso tempo il referendum annunziava il tracollo di una politica, perseguita con tenacia dalla principale componente del centro-sinistra che, nel corso della passata legislatura ha battuto molte piste senza riuscire ad approdare da nessuna parte. Innanzitutto la pista della bicamerale con la quale ha concepito addirittura l’ambizione di scrivere una nuova costituzione, ispirata alla filosofia del maggioritario, attraverso un accordo con gli eredi dei fascisti per eliminare la frattura storica dell’antifascismo. La strada tracciata dalla bicamerale non è stata percorsa perché il prodotto che aveva generato è crollato sotto il peso delle sue insostenibili contraddizioni. In secondo luogo la pista del partito unico che ha generato una politica volta a comprimere il pluralismo al massimo, sia usando la clava del maggioritario, sia attraverso i progetti di riforme istituzionali, sia nell’articolazione delle scelte politiche concrete che hanno mortificato le forze politiche custodi di una identità non omologata, come i popolari. L’auspicio di D’Alema che aveva pronosticato che ci saremmo presentati alle elezioni del 2001 senza partiti, segnala al contempo l’arroganza di questa politica e la sua impotenza a conseguire l’obiettivo.
Una volta suonato il campanello d’allarme del referendum Garavini si rendeva conto che non avrebbe potuto il centro-sinistra, così come strutturato, contrastare la resistibile ascesa di Berlusconi, Bossi e Fini e che i tempi supplementari concessi alla democrazia italiana dallo strappo del 95 stavano inesorabilmente per scadere.
Nella primavera-estate del 2000, prima di essere bloccato dal male che, un anno dopo lo avrebbe definitivamente fermato, Garavini impegnò tutte le sue energie e lanciò un appello contro la rassegnazione e per la rinascita della sinistra nel nostro paese, dal titolo suggestivo ma adeguato all’urgenza dei tempi: “se non ora quando?” Sulla base di tale appello fu organizzato dall’Associazione Per la Sinistra di cui Garavini era presidente, un convegno politico-programmatico, che si svolse il 14 luglio, avente come obiettivo l’avvio di un processo di rinnovamento e di ricomposizione politica a sinistra che, rispettando i partiti esistenti, consentisse di superare la frammentazione, ricomponendola nel quadro di una identità programmatica comune. Non fu per responsabilità di Garavini, che anzì fornì una originale e profonda elaborazione politico-programmatica, se quel progetto non andò avanti.
In effetti la stella polare che ha guidato l’impegno costante dei suoi ultimi anni, giorno dopo giorno, è stata l’esigenza di ricostruire l’unità della sinistra italiana, pur nel massimo rispetto della autonomia delle sua componenti. Non una unità qualsiasi, non una unità di convenienza o di facciata, bensì una unità fondata su un rinnovato progetto di democrazia e di emancipazione sociale, nella nuove condizioni che il tempo della globalizzazione impone. Perché Garavini era fermamente convinto che soltanto una rinnovata unità della sinistra avrebbe potuto salvare il nostro paese dal giogo della nuova barbarie che avanza. Ed infatti è stata proprio la divisione della sinistra a consegnare il nostro paese nella mani di questa destra eversiva e antidemocratica.
Perciò la salvezza della Repubblica, di quel progetto democratico di emancipazione sociale alla cui realizzazione aveva consacrato tutta la sua vita, è stato il bene supremo che egli ha posto al di sopra di ogni convenienza e di ogni interesse di partito. E su questa frontiera che si misura la distanza enorme fra Garavini e gli altri leaders politici del suo tempo.
Adesso che si è conclusa la sua avventura umana, Sergio appartiene alla storia dell’Italia.
Roma, 15 ottobre 2001
[1] Sergio Garavini, Ripensare l’illusione, Rubettino, 1999, pag. 56
[2] Sergio Garavini, op. cit. pag. 70
[3] Sergio Garavini, op. cit., pag. 71
[4] Sergio Garavini, op. cit., pag. 74
[5] Sergio Garavini, op. cit., pag. 74
[6] Sergio Garavini, op. cit., pag. 63
[7] Sergio Garavini, op. cit., pag. 77