Molti hanno considerato con scetticismo o con sufficienza la decisione dell’Assemblea Generale dell’ONU, adottata con la Risoluzione dell’8 dicembre 2003, di interpellare la Corte Internazionale di Giustizia delle Nazioni Unite sulla legalità della costruzione del muro da parte di Israele.
Com’è noto il conflitto israeliano palestinese è un vero e proprio cimitero della legalità internazionale nel quale giacciono sepolte (cioè inattuate) decine di pronunzie del Consiglio di Sicurezza e centinaia di risoluzioni e raccomandazioni dell’Assemblea Generale e di altri organi ausiliari. Le vicende del conflitto e di una occupazione militare che si protrae da quasi quarant’anni (la più lunga che si conosca nella storia moderna) pongono ogni giorno una sfida radicale alla legalità internazionale e mettono in discussione la stessa capacità della Comunità internazionale di organizzare la convivenza fra gli Stati su un sistema di regole condivise.
Di fronte a questa situazione catastrofica, molti hanno espresso scetticismo sulla possibilità che una pronunzia consultiva (cioè non vincolante) di un organo di giustizia internazionale possa giocare una concreta influenza sul conflitto in corso, condotto da attori politici che si dimostrano sempre più impermeabili alle ragioni del diritto.
Ma adesso siamo arrivati al momento della verità in quanto la pubblicazione della sentenza della Corte di Giustizia dell’ONU è prevista per il 9 luglio.
Noi non sappiamo se le parole che pronunzierà la Corte delle Nazioni Unite saranno tanto forti da far crollare il muro, però sappiamo che, ancor prima della pronunzia della Corte, il muro ha cominciato a crollare.
E lo ha fatto per effetto delle parole, molto più vincolanti per Israele, pronunziate dalla sua Corte Suprema con la “storica” sentenza del 30 giugno scorso.
Sebbene da taluni sia stata banalizzata o ridimensionata nella sua portata reale, non v’è dubbio che, per le vicende di Israele si tratti di una sentenza storica, come lo è stata la sentenza del 6 settembre 1999, che ha messo al bando la tortura, sotto ogni sua forma.
Con questa sentenza la Corte Suprema ha fatto cadere il tabù del muro, uno dei tabù più duri, più difficili, più radicati nel sentimento comune.
L’argomento che in realtà la sentenza non mette in discussione il muro, ma il suo tracciato non comprende la portata della breccia che la Corte ha inflitto al muro.
In realtà la discussione sulla legittimità della costruzione del muro non può essere separata dalla discussione sul suo tracciato. E’ evidente che se Israele avesse deciso di costruire il muro sulla linea verde, nessuno ne avrebbe potuto contestare la legalità, né avrebbe potuto ingiungere ad Israele di arrestarne la costruzione, come ha fatto l’Assemblea Generale con la Risoluzione approvata, quasi all’unanimità il 21 ottobre 2003. Un muro costruito sul confine si sarebbe prestato a critiche soltanto dal punto di vista della violenza fatta al territorio, ma non avrebbe potuto essere contestato dal punto di vista del diritto internazionale.
La decisione assunta dalla Corte Suprema israeliana non è stata semplice come dimostra al sua lunghissima e dettagliata motivazione. Per aprire una breccia nel muro, i giudici israeliani hanno dovuto depoliticizzare al massimo l’argomento, accettare come dogmi indiscutibili la pretesa che la costruzione del muro sia necessitata da esigenze di sicurezza e che il tracciato della barriera non rappresenta un tentativo di modificare le frontiere esistenti, attraverso una alterazione irreversibile dello status quo. Dovendo mantenere la loro navigazione all’interno di queste due insuperabili colonne d’Ercole, i giudici hanno fatto un lavoro di approfondimento delle conseguenze del passaggio del muro, con riferimento ad ogni chilometro percorso, prendendo in considerazione il danno concreto causato ai residenti della zona, quantificando ogni zolla di terreno espropriato per la costruzione del muro o intercluso, contando gli alberi che sarebbero stati sradicati o sottratti all’utilizzazione della popolazione. In questo contesto la Corte ha preso atto della irreparabilità della separazione dei contadini dai loro campi, giudicando che il regime di permessi e le porte aperte per il passaggio dei residenti non avrebbero neutralizzato gli effetti controproducenti sostanziali della barriera. Dopo aver fatto questo esame dettagliato la Corte ha stimato che quasi tutto il tracciato del muro oggetto di contestazione doveva considerarsi illegittimo in quanto, il bilanciamento fra le ragioni (incontestabili) della sicurezza e l’obbligo di tutelare i diritti delle popolazioni occupate si rivelava sproporzionato. In altre parole la Corte ha detto che, seppure in Israele la costruzione del muro è una scelta politica non censurabile dalla giustizia, in quanto fondata su ragioni incontestabili di sicurezza, queste ragioni devono essere tutelate senza, per questo, venir meno agli obblighi imposti dalle convenzioni internazionali. Tradotto in termini pratici, questo vuol dire che se la Corte Suprema manterrà fede a questo orientamento, quasi tutto il muro è destinato a crollare.
“Il nostro compito è difficile” – concludono i giudici. “Noi siamo membri della società israeliana. Sebbene qualche volta ci troviamo in una torre d’avorio, quella torre si trova, pur sempre nel cuore di Gerusalemme, che non infrequentemente è colpita da un terrorismo impietoso. (..) Noi siamo coscienti che nel breve periodo questa decisione non renderà più facile la lotta dello Stato contro coloro che gli si levano contro. Ma noi siamo giudici. Quando affrontiamo un giudizio noi siamo soggetti (soltanto) al diritto.”
»
»