Nel 1991 con il c.d. “Nuovo Modello di Difesa” è stata compiuta la scelta strategica di smobilitare l’esercito di leva e di costruire nuovi reparti operativi basati esclusivamente su volontari, cioè su personale utilizzato in modo professionale, sulla base di bandi di arruolamento a tempo determinato. L’eliminazione della leva è avvenuta in modo graduale, soprattutto per le difficoltà di bilancio, ed è stata sancita dalla legge Legge 14 novembre 2000, n. 331.
Il percorso di trasformazione dello strumento militare da un esercito di leva ad un esercito basato su corpi professionali non ha trovato grandi ostacoli politici. Anzi è stato sostenuto e propiziato anche dalle principali forze della sinistra, come il PDS/DS, che si sono battuti per raggiungere questo “traguardo”, senza preoccuparsi troppo che l’obiettivo dell’esercito professionale era stato concepito nel quadro di un pensiero strategico che puntava a creare uno strumento funzionale alle guerre del futuro, cioè all’uso della guerra come strumento al servizio della politica.
Non a caso, già nel Modello del 1991 si fa cenno al fatto che il nuovo volontario deve essere una sorta di professionista della guerra, poiché deve avere una motivazione che non sia semplicemente occupazionale, ma deve avere una sorta di vocazione al combattimento. Il Modello richiede, infatti, “Una migliore immagine del volontario, prevedendone l’impiego in tutti i ruoli propri del combattente, al fine di indirizzare le scelte della vita militare per motivazioni diverse da quelle semplicemente occupazionali.”
Per chiarire meglio il concetto, il gen. Canino (Capo di Stato Maggiore della Difesa all’epoca della Somalia) in una intervista sull’addestramento dei volontari al Corriere della Sera (14 giugno 1997) spiegava che: “ridotto all’osso il compito è insegnare ad uccidere bene e a farsi ammazzare poco”.
Cancellata la leva, il “servizio militare” ha cessato di essere un “servizio” ed è diventato una professione: la professione delle armi.
Tuttavia malgrado le suggestioni dannunziane dei vertici militari, il modello americano del guerriero “born to kill”, non può essere importato nel nostro sistema politico.
E’ fuori dalla cultura, dalla storia e dalla sensibilità del popolo italiano, ma – soprattutto – non è applicabile nell’ordinamento giuridico italiano che, malgrado tutto, continua ad essere quello di uno Stato democratico di diritto, che si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute (art. 10 Cost.), non può accettare la guerra come strumento della politica, dal momento che la ripudia (art.11) e non tollera la pena di morte.
Le strutture della forze armate professionali – quali che siano le dottrine militari o ideologiche in auge – sono parti di una pubblica amministrazione inserite in un ordinamento in cui prevalgono principi e criteri che escludono che i militari professionisti possano essere utilizzati come guerrieri, come delle macchine umane per la guerra, adatti a qualsiasi impiego, come stanno facendo i loro colleghi americani a Falluja ed un po’ in tutto l’Iraq.
I volontari in ferma prolungata, così come gli ufficiali ed i sottufficiali in servizio permanente effettivo, sono impiegati dello Stato, di uno Stato (ancora) democratico, di cui devono osservare scrupolosamente le leggi ed i valori costituzionali e dal quale hanno il diritto di pretendere il rispetto dei loro diritti umani fondamentali.
I compiti delle Forze armate nello Stato di diritto sono stati ridefiniti proprio dalla legge che ha istituito il servizio militare professionale che all’art. 1 statuisce che:
“L’ordinamento e l’attività delle Forze armate sono conformi agli articoli 11 e 52 della Costituzione e alla legge.
Compito prioritario delle Forze armate è la difesa dello Stato.
Le Forze armate hanno altresì il compito di operare al fine della realizzazione della pace e della sicurezza, in conformità alle regole del diritto internazionale ed alle determinazioni delle organizzazioni internazionali delle quali l’Italia fa parte.”
Questo significa che non è giuridicamente possibile un uso “bellico” delle forze armate, poiché il ricorso alla guerra, anche come strumento di ordine o di pacificazione internazionale è drasticamente interdetto dall’art. 11 della Costituzione.
Le forze armate possono essere adoperate, in un contesto internazionale, per operazioni volte a realizzare la pace e la sicurezza, il che può comportare l’uso eventuale della forza, ma ciò può avvenire a due condizioni:
– che l’uso della forza non deve essere di tipo bellico, in quanto le operazioni belliche continuano ad essere interdette dall’art. 11 della Costituzione;
– che le operazioni compiute devono essere conformi alle regole del diritto internazionale.
In epoca recente è stato modificato il Codice Penale militare di guerra per rendere più agevole l’utilizzo delle forze armate in missioni all’estero che comunque comportano l’uso o il rischio dell’uso della forza. Ciò ha comportato la necessità di trasfondere nel CPMG gli obblighi più rilevanti assunti dall’Italia nel campo della tutela dei diritti dell’uomo nel contesto dei conflitti armati. Così con una norma calderone (l’art. 185 bis) è stato previsto come reato il fatto del “militare che, per cause non estranee alla guerra, compie atti di tortura o altri trattamenti inumani, trasferimenti illegali, ovvero altre condotte vietategli dalle convenzioni internazionali…”
Per quanto lo status militare comporta una condizione di forte soggezione ad una struttura gerarchica e ad un rigido sistema di disciplina, non v’è dubbio che la legge si pone al di sopra della disciplina e degli obblighi di obbedienza.
Ciò comporta, per un verso, che la struttura gerarchica non può pretendere dai militari comportamenti vietati o che rischiano di infrangere le regole delle Convenzioni internazionali, per altro verso che gli impiegati dello Stato in servizio come militari non devono prestare obbedienza ad ordini la cui esecuzione potrebbe costituire reato, in quanto vietata dalle Convenzioni internazionali.
Quando l’impiego dei reparti militari si addentra in quella zona grigia al confine fra attività bellica vera e propria ed attività di ordine pubblico, com’è capitato in Somalia nel 1993/1994 e come capita attualmente a Nassiriya, allora si pone il problema del peso delle responsabilità individuali e dei valori di coscienza.
Anche se per il servizio militare professionale non si pone il problema dell’obiezione di coscienza nei termini in cui si è posto per il servizio di leva, dal momento che il volontario, avendo accettato l’arruolamento, non può rifiutarsi di portare le armi, tuttavia non si può escludere che dei problemi seri di coscienza si pongano quando le condizioni di impiego operativo travalichino i limiti del sistema, come avverrebbe in tutti i casi di uso indiscriminato delle armi, o eccessivo, rispetto alle esigenza della difesa individuale e di gruppo.
A questo riguardo, occorre ricordare che nel nostro ordinamento l’obiezione di coscienza è un diritto umano fondamentale, che non può essere soppresso in nessuna circostanza.
Ha osservato, infatti, la Corte Costituzionale con la nota sentenza 467 del 16 dicembre 1991 che:
“A livello dei valori costituzionali, la protezione della coscienza individuale si ricava dalla tutela delle liberta fondamentali e dei diritti inviolabili riconosciuti e garantiti all’uomo come singolo, ai sensi dell’art. 2 della Costituzione (..) Di qui deriva (..) che la sfera intima della coscienza individuale deve esser considerata come il riflesso giuridico più profondo dell’idea universale della dignità della persona umana. Sotto tale profilo, se pure a seguito di una delicata opera del legislatore diretta a bilanciarla con contrastanti doveri o beni di rilievo costituzionale e a graduarne le possibilità di realizzazione in modo da non arrecar pregiudizio al buon funzionamento delle strutture organizzative e dei servizi d’interesse generale, la sfera di potenzialità giuridiche della coscienza individuale rappresenta, in relazione a precisi contenuti espressivi del suo nucleo essenziale, un valore costituzionale cosi elevato da giustificare la previsione di esenzioni privilegiate dall’assolvimento di doveri pubblici qualificati dalla Costituzione come inderogabili.”
Con riferimento all’esercito professionale il legislatore, a tutt’oggi, non ha ancora compiuto il bilanciamento fra i valori della coscienza e gli altri beni di rilievo costituzionale. Questo non vuol dire che il problema dell’obiezione di coscienza non si pone. Al contrario, il fatto che il legislatore non sia ancora intervenuto, rende tanto più urgente l’esigenza di una mobilitazione politica per ottenere che i valori della coscienza trovino adeguato riconoscimento.