E’ cominciata silenziosamente in senato la discussione sul progetto governativo di revisione costituzionale già approvato dalla camera in una prima lettura nello scorso ottobre. Si tratta chiaramente, per le sue dimensioni e per lo stravolgimento progettato, di una nuova costituzione, promossa da una coalizione di forze – Alleanza nazionale, Forza Italia e Lega nord – nessuna delle quali ha partecipato alla formazione della Costituzione attuale. Il senso politico dell’operazione è chiaro. Ciò che si vuole realizzare è una completa rottura della continuità costituzionale al fine di rifondare la Repubblica sulle forze che alla Costituzione del ’48 e alla sua origine antifascista furono estranee od ostili. Proprio perché non si riconosce nella Costituzione vigente, questa nuova destra, oggi maggioritaria in parlamento ma non nel paese, pretende di archiviarla, di varare una sua costituzione a sua immagine e somiglianza, di rompere il vecchio patto di convivenza che non a caso Berlusconi ha squalificato come «sovietico». Di qui una prima domanda: è legittima, sul piano delle forme e del metodo, una simile riforma, non consistente in una semplice «revisione» costituzionale ma nella confezione di una costituzione del tutto diversa, che cambia al tempo stesso la forma di stato, da nazionale a federale, e la forma di governo da parlamentare a para-presidenziale e tendenzialmente monocratica? La risposta è chiaramente negativa. La nostra Costituzione, come del resto la quasi totalità delle costituzioni democratiche, non ammette il varo di una nuova costituzione, neppure a opera di un’ipotetica assemblea costituente eletta con il metodo proporzionale che pur decidesse a larghissima maggioranza. Il solo potere ammesso dal suo articolo 138 è un potere di revisione, che non è un potere costituente ma un potere costituito, il cui esercizio può consistere solo in specifici emendamenti; laddove, se diretto a dar vita a una nuova costituzione, esso si converte in un potere costituente e sovrano, anticostituzionale ed eversivo, in contrasto, oltre che con l’articolo 138, con il primo articolo della Costituzione secondo cui «la sovranità appartiene al popolo» che da nessuno può esserne espropriato.
Ciò cui invece stiamo assistendo è l’approvazione a colpi di maggioranza di un testo che altera l’intero assetto istituzionale, modificando competenze e regole di formazione e funzionamento di tutti gli organi costituzionali: del parlamento e del governo, del presidente della Repubblica e del presidente del consiglio, dello stato e delle regioni. Il precedente della sconsiderata riforma del titolo V varata dall’Ulivo è invocato a sproposito: benché gravemente colpevole, quella riforma fu pur sempre una revisione settoriale della Costituzione che per di più riprodusse, nella sostanza, una modifica che era stata approvata qualche anno prima dai due schieramenti nella bicamerale. L’attuale disegno riscrive invece ben 43 articoli della seconda parte, con gli inevitabili riflessi sulla prima. E’ la vecchia idea che Gianfranco Miglio espresse brutalmente dieci anni fa, dopo la prima vittoria elettorale delle destre: la costituzione non è un accordo tra tutti sulle regole del gioco ma è un «patto che i vincitori impongono ai vinti».
Ma questa nuova costituzione è illegittima non solo sul piano del metodo, ma anche su quello dei contenuti, che come stabilì una storica sentenza della Corte costituzionale del 1988 non possono derogare ai «principi supremi» della Costituzione. Non mi soffermo sulla cosiddetta «devolution», che assegnando in maniera esclusiva alle regioni scuola, sanità e funzioni di polizia, rompe l’unità della Repubblica che si basa sull’uguaglianza dei cittadini nei diritti fondamentali, quali sono in particolare i diritti sociali alla salute e all’istruzione.
Neppure mi soffermo sull’incredibile complicazione, quasi un sabotaggio della funzione legislativa, divisa tra ben quattro tipi di fonti – leggi della camera, leggi del senato, leggi bicamerali, leggi del senato con «modifiche essenziali» su iniziativa del governo e, in più, commissioni e comitati paritetici per decidere chi deve legiferare e mediare i conflitti – con l’inevitabile caos istituzionale, le incertezze e gli infiniti contenziosi che proverranno da una ripartizione inevitabilmente astratta e generica delle quattro competenze. L’aspetto più grave di questa riforma, senza confronti né precedenti in nessun sistema democratico, consiste nella demolizione del principio della rappresentanza politica, che è indubbiamente un «principio supremo» sottratto al potere di revisione. Viene anzitutto capovolto il rapporto di fiducia tra parlamento e governo: non sarà più il primo ministro, legittimato direttamente dal voto popolare, che dovrà avere la fiducia del parlamento, ma sarà il parlamento che dovrà avere la fiducia del primo ministro, il quale potrà scioglierlo in forza di un potere affidato non più al presidente della Repubblica ma alla sua «esclusiva responsabilità». E’ prevista soltanto la mozione di sfiducia, votata dalla camera per appello nominale, approvata dalla maggioranza assoluta dei suoi componenti e seguita dal suo scioglimento, salvo che sia accompagnata dalla «designazione di un nuovo primo ministro da parte dei deputati appartenenti alla maggioranza espressa dalle elezioni, in numero non inferiore alla maggioranza dei componenti della camera». Non solo: «il primo ministro si dimette altresì qualora la mozione di sfiducia sia stata respinta con il voto determinante dei deputati non appartenenti alla
maggioranza espressa dalle elezioni».
Io credo che queste norme anti-ribaltone siano il vero cuore della riforma: il segno inequivoco della svolta che si intende realizzare. Grazie ad esse saranno impossibili le crisi di governo parlamentari. Maggioranza e minoranza vengono blindate, sicché solo i parlamentari della maggioranza avranno un potere di iniziativa politica e di
responsabilizzazione dell’esecutivo, mentre i parlamentari della minoranza non conteranno nulla. E’ la fine della rappresentanza «senza vincolo di mandato», sancito quale principio basilare della democrazia politica dall’art.67, essendo ciascun parlamentare vincolato alla coalizione di appartenenza.
Non si tratta di una semplice «riforma». Con questa rigida separazione tra maggioranza e minoranza il parlamento viene di fatto emarginato. Già con il sistema maggioritario è stata abolita l’uguaglianza nel voto dei cittadini. Il nuovo sistema abolisce ora anche l’uguaglianza del voto dei parlamentari ed estromette di fatto l’opposizione da ogni funzione di controllo e di mediazione politica. Non solo. Esso vanifica anche la rappresentatività e la responsabilità politica dei parlamentari della maggioranza, i quali risulteranno vincolati da un rapporto di mandato imperativo, non già dal basso ma dall’alto, nei confronti del primo ministro. Queste norme sono infatti dirette non solo a neutralizzare l’opposizione ma soprattutto a disciplinare, a ricattare e di fatto a neutralizzare ogni potere di controllo della stessa maggioranza parlamentare. Ne risulterà una totale irresponsabilità del primo ministro di fronte al parlamento in favore di un suo rapporto organico, diretto, con l’elettorato.
Si sta insomma progettando la soppressione della democrazia parlamentare e forse della democrazia tout court. Giacché un organo monocratico non accompagnato da un parlamento indipendente non può per sua natura, come insegnava Hans Kelsen settant’anni fa, rappresentare tutto il popolo, che non è un’entità omogenea ma una pluralità di soggetti e di interessi attraversata da conflitti politici e di classe. La democrazia, aggiungeva Kelsen, «è un regime senza capi». E l’idea di un rapporto organico tra un capo e il popolo intero è un’idea rganicistica e populista che contraddice la nozione stessa della democrazia, non diciamo costituzionale ma semplicemente «rappresentativa».
Per questo sarebbe essenziale – prima che lo scempio si compia, prima della seconda lettura del progetto da parte del parlamento – un messaggio motivato del presidente della Repubblica che quanto meno ricordi alle camere i limiti del potere di revisione, il fatto che la Costituzione è un patrimonio di tutti e l’inviolabilità dei principi supremi tra i quali rientrano indubbiamente la rappresentanza politica senza vincolo di mandato e il ruolo di iniziativa, di controllo e mediazione di un libero parlamento. Se c’è un caso in cui l’esercizio del ruolo di garante della costituzione del presidente della Repubblica è doveroso, esso è proprio questo; tanto più che per le leggi di revisione costituzionale ben difficilmente il presidente potrebbe ricorrere al potere di rinvio previsto dall’art.74 prima della promulgazione, la quale fa seguito al referendum confermativo.
Ma ancor più essenziale è l’informazione dell’opinione pubblica e la sua obilitazione intorno al pericolo incombente. Temo che alla base dell’inerzia dell’opposizione ci sia una scarsa consapevolezza intorno alla gravità della posta in gioco e, insieme, il solito timore di «demonizzare» un avversario che si rivela ogni volta peggiore e, oltre tutto, accusa quotidianamente la sinistra di preparare al paese terrore, miseria e morte. E’ invece necessario drammatizzare la questione costituzionale proponendola, semplicemente, come emergenza democratica: come la scelta, cui saremo chiamati con il referendum costituzionale tra l’istituzione di un regime e la sopravvivenza della democrazia. Solo così, del resto, il referendum potrà essere vinto: solo se diventerà una grande battaglia di principio, non inquinata da proposte di compromesso, consapevole della posta in gioco e dei guasti già prodotti dall’avventura berlusconiana, capace di rifondare, nel senso comune, il valore della Costituzione repubblicana quale fondamento della nostra democrazia.