“Vi ricordate quel diciotto aprile /d’aver votato democristiani/Senza pensare all’indomani/a rovinare la gioventù.” Così si esprimeva una canzone comunista che rielaborava il lutto della sconfitta subita nel più drammatico confronto elettorale del dopoguerra.
La durezza dello scontro politico che ha percorso l’Italia ed appassionato il popolo italiano nella primavera del 1948, con il suo contorno di scomuniche e di anatemi, è ormai entrata nella leggenda. Nelle elezioni del 18 aprile il confronto politico fra il polo democristiano e quello socialcomunista è stato accesissimo, in quanto dalla scelta che avrebbero compiuto gli elettori sarebbero derivati due diversi modelli politico-sociali per la ricostruzione dell’Italia e lo sviluppo delle libertà civili, così duramente riconquistate, nel contesto di una drammatica divisione del mondo in due blocchi contrapposti.
E tuttavia, malgrado la diversità delle culture politiche (e delle opposte visioni del mondo) che si confrontavano nel 1948, i due schieramenti condividevano (sia pure con diverse interpretazioni) la medesima cultura istituzionale ed un patrimonio comune di valori fondamentali.
Infatti, soltanto qualche mese prima, il 22 dicembre 1947, l’Assemblea Costituzionale aveva approvato a stragrande maggioranza (con 453 voti favorevoli su 515 votanti) una Carta Costituzionale, frutto di una salda intesa politica e programmatica fra tutte le culture politiche “vive” dell’epoca, liberali, cattolici, socialisti e comunisti.
I due schieramenti condividevano lo stesso progetto istituzionale: si erano tutti impegnati a costruire una casa comune per il popolo italiano in cui fossero a tutti assicurati determinati beni pubblici repubblicani, fra i quali il ripudio della guerra, il pluralismo, la distribuzione del potere e dei poteri, il riconoscimento e la tutela delle autonomie individuali e sociali. Si trattava di un insieme armonioso di beni pubblici fondato su un presupposto politico saldo come la roccia: l’antifascismo.
Quello che rende profondamente differenti le elezioni del 9 e 10 aprile 2006, da tutte le altre elezioni del dopoguerra, è il fatto che – per la prima volta – i due schieramenti politici contrapposti, a differenza che nel 1948, non condividono più gli stessi valori costituzionali e lo scontro non avviene più fra due diverse interpretazioni, fra due diversi modelli politico-sociali, nel quadro di un medesimo contesto di democrazia condivisa.
Infatti uno degli schieramenti in campo, non solo non condivide e non si riconosce nei valori fondamentali della Costituzione italiana (a cominciare dal ripudio della guerra), ma addirittura ha sferrato un attacco mortale alla Costituzione del 1948, approvando un disegno di riforma che “archivia” la Costituzione del 1948 e la sostituisce con una nuova pseudo-Costituzione, la Costituzione di Lorenzago, i cui contenuti sono stati accuratamente nascosti al popolo italiano dietro la denominazione ingannevole di “devolution”. Se questa nuova Costituzione non è ancora in vigore, è solo perché oltre 800.000 cittadini, la maggioranza delle Regioni e l’opposizione parlamentare hanno chiesto il referendum per opporvisi.
In realtà la Costituzione di Lorenzago costituisce il vero programma del centro-destra perché riflette la concezione e soprattutto la pratica della democrazia che è propria di questa destra e che questa destra pretende di imporre come nuova carta di identità alla Repubblica. Essa, pertanto, definisce il volto che assumerà la democrazia italiana in caso di vittoria della casa della libertà.
Si tratta di un modello di democrazia con una inusitata forma di governo, basata sulla prevalenza del Capo del Governo sullo stesso Governo e sulle Assemblee Parlamentari. Una forma di Governo non assimilabile a nessun altro ordinamento di democrazia occidentale (né di tipo parlamentare, né di tipo presidenziale), ma non inusitata nel nostro paese in quanto profondamente rassomigliante a quella vigente in epoca fascista, il cui ordinamento veniva definito, dagli studiosi di diritto pubblico dell’epoca, come un sistema basato sulla prevalenza del primo Ministro. E’ stato dimostrato che, la c.d. “devolution” conferirà al cav. Silvio Berlusconi poteri addirittura superiori a quelli che la L. 24/12/1925 n. 2263 attribuì al cav. Benito Mussolini, modificando l’equilibrio dei poteri vigente nello Statuto Albertino.
Pertanto la posta in gioco nelle elezioni del 9/10 aprile non riguarda due diversi modelli economico-sociali, che propongono soluzioni differenti alle esigenze ed ai bisogni del popolo italiano. Non riguarda le tasse che dovremo pagare o dalle quali saremo esentati, come ci inducono a credere i riduttivi dibattiti politici fra i leaders dei due schieramenti. La posta in gioco è la Costituzione: cioè se deve sopravvivere il modello di democrazia costituzionale, col suo patrimonio indisponibile di beni pubblici repubblicani, che i padri costituenti ci hanno lasciato in eredità, come pegno di amicizia permanente verso le generazioni future, ovvero se questo modello deve essere distrutto dall’avanzata di una fazione politica che tende a trasformarsi in regime.
Questo rende l’attuale tornata elettorale molto più impegnativa per il futuro del nostro paese di quanto lo fu quella del 1948. Ma il popolo italiano è stato informato e reso edotto del valore della scelta che ci apprestiamo a compiere?