Con il nuovo clima politico istauratosi con la vittoria politica del centro-sinistra alle ultime elezioni, e grazie ai lavori della commissione per la riforma del codice penale presieduta da Giuliano Pisapia è divenuto attuale un progetto perseguito in più legislature, ma mai portato a termine: l’abolizione dell’ergastolo. Questo progetto è stato più volte fermato dalle gravi emergenze che hanno funestato la nostra vita pubblica ed è stato persino bloccato attraverso un referendum, improvvidamente proposto, e svoltosi nel 1981 in piena stagione terroristica. Per evitare che il dibattito su una scelta di ordinamento penale che ha un così grande valore simbolico (e quindi politico) si areni nelle secche della banalità, occorre comprendere le ragioni profonde che sono alla radice dell’esigenza di cancellare dal nostro ordinamento la pena perpetua. Al riguardo occorre tenere presente che l’ergastolo non è una pena assimilabile alla reclusione, ma è una pena da essa qualitativamente diversa, assai più assimilabile alla pena di morte che non a quella della privazione temporanea della libertà personale. La ragione profonda per la sua abolizione risiede nei principi supremi della Costituzione. Se l’ergastolo verrà abolito, ciò avverrà perché sarà messo a frutto uno dei doni più preziosi, del nostro ordinamento costituzionale: il principio personalista.
Si è molto dibattuto in dottrina e nella giurisprudenza ordinaria e costituzionale dei significati e del valore profondo di quel precetto costituzionale contenuto nel terzo comma dell’art. 27 della Costituzione, che recita: “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato.”
Se la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 264 del 22 novembre 1974, con la quale ha respinto la questione di incostituzionalità dell’ergastolo, si è arrampicata sugli specchi di una tormentata concezione polifunzionale della pena, essa, tuttavia, non è sfuggita al paradosso (lucidamente segnalato da Luigi Ferrajoli), di una pena perpetua dichiarata costituzionalmente legittima nella misura in cui è, in realtà, non perpetua (poiché l’ergastolano può essere ammesso al beneficio delle libertà condizionale).
Il dibattito sull’abolizione dell’ergastolo, tuttavia, non può fermarsi al principio rieducativo della pena, se non si comprende la ragione per cui quel principio è stato posto. In realtà esso rappresenta un mero corollario di un principio più alto, il principio personalista, che informa di sè tutto l’edificio costituzionale ed ha trovato compiuta espressione soprattutto negli art. 2 e 3 della Costituzione.
Alla radice di questo principio c’è il famoso ordine del giorno Dossetti (9 settembre 1946) presentato nei primi giorni di attività della 1^ Sottocommissione.
“La Sottocomrnissione, esaminate le possibili impostazioni sístematiche di una dichiarazione dei diritti dell’uomo; esclusa quella che si ispiri a una visione soltanto individualistica; esclusa quella che si ispiri a una visione totalitaria, la quale faccia risalire allo Stato l’attribuzione dei diritti dei singoli e delle comunità fondamentali; ritiene che la sola impostazione veramente conforme alle esigenze storiche, cui il nuovo statuto dell’Italia democratica deve soddisfare, è quella che:
a) riconosca la precedenza sostanziale della persona umana (intesa nella completezza dei suoi valori e dei suoi bisogni non solo materiali, ma anche spirituali) rispetto allo Stato e la destinazione di questo a servizio di quella;
b) riconosca ad un tempo la necessaria socialità di tutte le persone, le quali sono destinate a completarsi e perfezionarsi a vicenda, mediante una reciproca solidarietà economica e spirituale: anzitutto in varie comunità intermedie disposte secondo una naturale gradualità (comunità familiari, territoriali, professionali, religiose, ecc.), e quindi per tutto ciò in cui quelle comunità non bastino, nello Stato;
c) che perciò affermi l’esistenza sia dei diritti fondamentali delle persone, sia dei diritti delle comunità anteriormente ad ogni concessione da parte dello Stato.
Sulla base di questo ordine del giorno è stato elaborato l’art. 2 della Costituzione, la cui formula: “la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità” significa che la persona umana, nella sua concreta individualità sociale, è un valore storico-naturale, un valore originario, che l’ordinamento deve riconoscere e rispettare in ogni circostanza. Per questo i suoi diritti fondamentali sono “inviolabili”, non possono essere cancellati o manomessi dall’ordinamento, neppure con il procedimento di revisione costituzionale, né possono essere sacrificati sull’altare della ragione di Stato o per fini generali di politica criminale.
L’ergastolo, in quanto pena “eliminativa”, è in contraddizione con l’idea stessa della persona come fine, e quindi con l’essenza del principio personalista, radice profonda, gloria e vanto del nostro ordinamento costituzionale.