“Considerato che il riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana e dei loro diritti uguali ed inalienabili costituisce il fondamento della libertà, della pace e della giustizia nel mondo;
Considerato che il disconoscimento ed il disprezzo dei diritti umani hanno portato ad atti di barbarie che offendono la coscienza dell’umanità e che l’avvento di un mondo in cui gli essere umani godano della libertà di parola e di credo e della libertà dal timore e dal bisogno è stato proclamato come la più alta aspirazione dell’uomo.”
Sono queste le grandi parole con le quali si apre la dichiarazione universale dei diritti umani approvata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948.
Non è retorico affermare che la Dichiarazione Universale rappresenta un punto di svolta nella storia e costituisce una sorta di Magna Carta dell’Umanità.
Essa è il punto più alto della svolta che la Comunità internazionale ha operato nel 1945, creando un nuovo ordinamento di istituzioni e diritti, a partire dalla Carta della Nazioni Unite, inteso a costruire la pace attraverso il diritto ed a cambiare il diritto, inserendovi come suo connotato essenziale, il riconoscimento della dignità della persona e dell’universalità dei suoi diritti fondamentali.
Non è un caso che la Dichiarazione universale sia entrata in vigore lo stesso anno nel quale è entrata in vigore la Costituzione italiana. L’accostamento tra i due documenti non è casuale: entrambi sono il frutto dello stesso spirito, dello stesso “grande fatto globale, cioè i sei anni della seconda guerra mondiale”, come per le origini e i fondamenti della nostra costituzione ebbe a dire Giuseppe Dossetti nel 1994. La terribile guerra e gli eventi che la avevano preceduta e causata il drammatico trionfo dei regimi fascisti e nazista, la passione e la lezione della resistenza, generarono infatti a livello globale la rinascita d’una profonda riflessione sulla condizione umana che portò alla volontà di creare un nuovo assetto per molti paesi e per tutto il mondo (U.Allegretti). La Costituzione è per l’Italia la conquista di un ordinamento fondato sui diritti fondamentali dell’essere umano e sulla democrazia politica ed economica; la Dichiarazione universale segna “la proiezione dei diritti umani sanciti dalle costituzioni democratiche sul piano internazionale” (A. Cassese), inaugurando così una nuova fase della vita del mondo e una nuova concezione del diritto internazionale che, da ordinamento che ha per soggetti solo gli Stati tende a trasformarsi in un sistema in cui l’uomo è esso stesso soggetto, con i suoi diritti e i suoi doveri. La Dichiarazione sviluppa i semi contenuti nella Carta delle Nazioni unite, approvata nel 1945, che aveva già prefigurato questo nuovo orizzonte affermando nel suo preambolo “la fede nei diritti fondamentali dell’uomo, nella dignità e nel valore della persona umana”, e ponendo, per conseguenza nell’art. 1.3 tra i compiti della nuova Organizzazione quello di “promuovere e incoraggiare il rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali”.
La Dichiarazione fu approvata, praticamente all’unanimità, con solo otto astensioni su 58 paesi votanti. Per quanto essa non sia un documento giuridicamente vincolante per gli Stati, tuttavia essa costituisce un punto di svolta perché ha tracciato i binari lungo i quali è stata sviluppata la grande codificazione del diritto internazionale dei diritti umani, a cui appartengono la Convenzione internazionale contro il genocidio, la Convenzione contro la tortura, la Convenzione contro la discriminazione della donna, la Convenzione contro la discriminazione razziale, la Convenzione per i diritti del fanciullo, la Convenzione Europea sui diritti dell’uomo (CEDU) ed i fondamentali Patti dell’ONU del 1966 sui diritti economico sociali e sui diritti civili e politici.
In tal modo si è andato formando un diritto che, per la prima volta nella storia, sanava la contraddizione antichissima esistente fra il diritto e la giustizia. Con la Dichiarazione universale e con gli atti susseguenti, la giustizia è stata incorporata nel diritto. Questa è stata la vera lezione positiva che l’umanità ha tratto, uscendo fuori dalla notte della II guerra mondiale, la gloria del novecento, il patrimonio morale che l’Occidente (compresi i paesi socialisti) ha costruito per l’umanità intera.
Dopo la dichiarazione universale non è più concepibile, come in passato, un diritto della tortura, un diritto della discriminazione razziale, un diritto della schiavitù. Neppure la guerra, che costituisce, pur sempre una ferita inflitta al diritto, può comportare la (completa) sospensione dei diritti umani fondamentali, in quanto la guerra stessa è giudicata dal diritto. Dal diritto dei conflitti armati, incentrato sulle Convenzioni di Ginevra, che vieta ai belligeranti il ricorso alla tortura, alle punizioni collettive, alle uccisioni arbitrarie, etc.
Questo non vuol dire che non esistono forme di schiavitù, pratiche di tortura o di discriminazione. Però queste pratiche, generalmente, avvengono fuori dal diritto. Negli ultimi anni la pratica più ostentata di violazione del diritto, la deportazione e detenzione a Guantanamo dei presunti terroristi, combattenti-nemici dell’impero americano, nonché l’appalto della tortura attraverso le “ extraordinary renditions” (come nel caso di Abu Omar, rapito da agenti CIA a Milano il 17/2/2003) è avvenuta attraverso una aperta ribellione al diritto, con il rifiuto dell’amministrazione Bush di applicare ai detenuti di Guantanamo, tanto le Convenzioni internazionali, quanto i principi dell’”habeas corpus” del diritto anglosassone. Per questo Amnesty International ha definito Guantanamo un “buco nero” del diritto.
Purtroppo noi viviamo in un tempo in cui, a 60 anni dalla dichiarazione universale, la politica si ribella apertamente e disconosce il valore dei diritti umani come base della convivenza civile e della vita delle nazioni sulla terra.
Si tratta di un processo che viene da lontano, iniziato con la prima guerra del Golfo, nel 1991, e proseguito con la guerra alla Jugoslavia, con la II guerra del golfo e con la c.d. “guerra al terrorismo” che contemporaneamente hanno rilegittimato il ricorso alla guerra, come strumento ordinario della politica ed hanno ricondotto il discorso sui diritti umani all’interno di un paradigma razzista. Le guerre asimmetriche in cui i morti stanno tutti dall’altra parte, non sono semplicemente espressione della politica dei due pesi e due misure praticata dai principali paesi dell’occidente, bensì costituiscono la negazione della qualità essenziale della concezione dei diritti dell’uomo introdotta dalla Dichiarazione del 48: l’universalità.
Senza l’universalità, i diritti dell’uomo si trasformano nel loro contrario. Se la fraternità è “bianca”, se la dignità della persona da proteggere è quella degli appartenenti al nostro gruppo sociale, etnico o religioso, allora si riapre la strada al disconoscimento ed al disprezzo dei diritti umani.
il dato più preoccupante di questo stato di cose non consiste nelle innumerevoli “violazioni di fatto” compiute da governi, da gruppi, da singoli, e che non trovano sufficiente reazione da parte dell’opinione pubblica e dei leaders politici, bensì nel fatto che violazioni sistematiche sono compiute non con i soli comportamenti ma con quei moltissimi atti di diritto internazionale e di diritto interno che entrano in contraddizione diretta con le risoluzioni, le convenzioni e le stesse costituzioni degli Stati.
Questa serie di violazioni che avviene per via giuridica e normativa è infatti particolarmente grave perché rappresenta la punta di iceberg di una tendenza che punta a cambiare nuovamente la natura del diritto, separandolo dalla giustizia e restituendolo alla dimensione del mero comando politico reso obbligatorio dall’esercizio della sovranità. In altre parole il diritto diventerebbe puramente e semplicemente l’arbitrio del sovrano. In questo modo verrebbe cancellata per sempre la lezione del novecento e le grandi carte con le dichiarazioni dei diritti diventerebbero oggetti d’antiquariato. Questo patrimonio specifico, sviluppatosi nell’occidente, ed all’interno della cultura occidentale, verrebbe cancellato, dilapidato per sempre.
Anche nel nostro paese sono stati compiuti significativi passi nella direzione della contestazione per via giuridica e normativa della Dichiarazione universale (oltre che della Costituzione italiana). Basti pensare al c.d. “pacchetto sicurezza”, attraverso il quale è stato introdotto una sorta di diritto penale (ed amministrativo) del nemico, inteso come sotto-sistema (sostanziale, processuale, penitenziario) differenziale, caratterizzato da una forte riduzione delle garanzie e da una significativa deroga ai principi del diritto penale liberale e destinato ad applicarsi a coloro che, percepiti come diversi, sono rappresentati come ‘nemici pubblici’ (immigrati, rom, senza casa). In virtù di questo nuovo sistema si potrà infliggere agli imputati con la pelle scura (cioè gli immigrati irregolari) una pena più elevata di quella riservata agli imputati con la pelle chiara. A 70 anni dall’introduzione in Italia delle leggi razziali, i semi delle leggi razziali sono messi di nuovo in circolazione e sparsi a piene mani nella pieghe della legislazione Nel luglio del 1938 fu istituita presso il Ministero dell’Interno la Direzione generale per la Demografia e la Razza, con il compito di provvedere al censimento della popolazione ebraica presente in Italia, e quindi di mantenere ed aggiornare un registro degli ebrei. Oggi l’art. 44 del D.L. 733 sulla sicurezza (che il Senato ha approvato in questi giorni) prevede l’istituzione presso il Ministero dell’Interno di un registro dei senza casa.
Ma è sul piano internazionale che avvengono le contestazioni più gravi e più estreme del principio della universalità dei diritti dell’uomo e del riconoscimento della uguale dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana.
La nascita dei conflitti in Medio Oriente è coeva alla Dichiarazione universale, ma nei sessant’anni trascorsi non si era mai visto un conflitto cosi ingiusto, così brutale, così tragicamente futile ed inutile, come l’aggressione di Israele al martoriato popolo di profughi ammassato in quel grande campo di concentramento che è la striscia di Gaza. Una guerra preordinata a tavolino, costruita come operazione patriottica per catturare il consenso elettorale e scatenata nello spazio di tempo vuoto che precede l’insediamento di Obama alla Casa Bianca. “Ancora una volta – ha osservato il giornalista israeliano Gideon Levy allo scoppio del conflitto – le risposte violente di Israele, anche se hanno una giustificazione, eccedono qualsiasi misura e superano ogni limite di umanità, moralità, legalità internazionale, o ragionevolezza.”
Proprio questo è il punto. Quali che siano le ragioni di Israele e quali che siano le colpe di Hamas, quando un esercito, forte di centinaia di carri armati, di aerei da guerra e di navi militari, attacca dalla terra, dal cielo e dal mare, le baracche dei campi profughi ed una città in cui vivono accatastati un milione e mezzo di persone (di cui la metà costituita da fanciulli), stremate da un embargo che le ha ridotte alla fame, allora vuol dire che pietà l’è morta. Ma non è morta solo la pietà, è la legalità internazionale che viene calpestata assieme alla dignità inerente a ciascun membro della famiglia umana. Non sono solo i crimini, usualmente connessi alla guerra, che sono stati praticati senza alcun risparmio, attraverso il bombardamento di Ospedali, delle scuole dell’ONU o di altri rifugi della popolazione civile ed il fuoco sulle ambulanze. E’ la guerra stessa che costituisce un crimine in sé, in quanto atto estremo di punizione collettiva e di vendetta per i danni subiti da Israele per il lancio dei missili qassam. Azione provocatoria che avrebbe potuto molto più facilmente essere fermata, e senza spargimento di sangue, se, per esempio, Israele avesse posto fine alla pratica degli omicidi mirati dei militanti di Hamas.
L’indifferenza con cui è stato accolto dagli operatori culturali dei principali media e dai leaders politici (non solo di centro-destra) la strage degli innocenti di Gaza, è un terribile segno dei tempi.
Quando di fronte all’indecenza di questo massacro, l’unico discorso che tiene banco è la verifica se siamo filo-palestinesi o anti-israeliani, e ci si indigna per qualche bandiera bruciata o per una trasmissione televisiva che fa passare qualche immagine della strage, vuol dire che il linguaggio della politica si è completamente affrancato e non riconosce più i valori universali che la Dichiarazione ha cercato di porre a fondamento della vita delle nazioni (come del resto si è affrancato dai valori della Costituzione). Per questo nessuno si è chiesto se gli eventi della guerra costituissero anche un oltraggio ai diritti dell’uomo,o un fatto eversivo della legalità internazionale di fronte al quale la Comunità internazionale avrebbe dovuto reagire. In questo contesto, purtroppo, non dobbiamo stupirci se un leader del PD (Rutelli) ha scoperto che il muro dell’apartheid che frantuma la Cisgiordania è bello, incurante della condanna da parte della Corte Internazionale di Giustizia dell’ONU.
Tuttavia da questi eventi sarebbe sbagliato trarne la conclusione che la vicenda dei diritti umani, aperta dalla Dichiarazione universale si avvia definitivamente al tramonto. Se la bandiera dei diritti umani è stata gettata nel fango dai ceti dirigenti e persino dai leaders di quelle nazioni che hanno partorito il costituzionalismo moderno, non vuol dire che di quella bandiera non abbiamo bisogno o che essi siano menzogneri perché grandemente disconosciuti.
Anzi proprio dove i diritti umani sono stati massimamente disconosciuti dalle pratiche del potere, adesso si aprono dei segnali di speranza, se il primo atto della nuova amministrazione americana – come promesso – sarà quello di chiudere Guantanamo.
Il mondo che verrà avrà sempre più bisogno che venga restaurato il primato dei diritti dell’uomo e venga delegittimata quella politica che ricerca l’onnipotenza costruendo nuovi cimiteri.