Per tutto il secolo scorso Guantanamo è stato un luogo simbolo di nostalgia, di emozioni sulle note della famosa canzone Guantanamera basata sulle parole di Josè Marti. Nel nuovo secolo, dopo l’11 settembre, grazie alla musica suonata dalla banda di George Bush & company, Guantanamo è divenuto il luogo simbolo dell’arbitrio del potere che rinnega i valori del diritto e le tradizioni giuridiche della civiltà occidentale. Un buco nero del diritto, l’ha definito Amnesty International.
Quelle gabbie e cielo aperto con gli uomini dalle tute arancioni, dichiarati nemici combattenti e criminali e, tuttavia, sottratti sia alla disciplina che regola il trattamento dei nemici (le Convenzioni di Ginevra), sia alla disciplina che regola il trattamento dei criminali (le garanzie del giusto processo) e torturati un giorno sì ed uno no, sono diventate un luogo di sperimentazione dal vivo della onnipotenza di una politica svincolata dal diritto.
È comprensibile, pertanto, che il primo atto di Obama, come Presidente, sia stato quello di ordinare la chiusura di Guantanamo. Più facile a dirsi che a farsi. Subito sono partite le contestazioni. È stato contestato persino il divieto di torturare i detenuti e rivendicata la legittimità della pratica feroce dello waterboarding e gli operatori «umanitari» della Cia hanno preteso l’immunità per i misfatti compiuti per ordine del precedente governo. Ma con il voto dell’altro giorno al Senato siamo arrivati al paradosso dell’aperta ribellione a Obama della sua stessa maggioranza, che, avendo stanziato un bilancio supplementare di 91,3 miliardi di dollari per continuare la guerra in Iraq e Afghanistan, si è rifiutata di stanziare 80 milioni di dollari per chiudere le gabbie di Guantanamo, trasferendo i circa 240 detenuti ancora rimasti in carceri ordinarie.
È un segnale politico forte. Da un certo punto di vista, esso è indicativo della statura del leader Obama, che rappresenta un reale fenomeno di discontinuità rispetto agli assetti di potere e alla cultura dell’estabilishment, tanto da essere osteggiato persino dai senatori del partito democratico, che pure devono le loro fortune elettorali all’effetto Obama. Da un altro punto di vista il voto del Senato, ci mostra che quando si va alla radice dei problemi del cambiamento promesso da Obama, gli assetti di potere tradizionale sollevano un muro che imprigiona il leader e ne spegne la capacità riformatrice. E Guantanamo, per quanto di grande valore simbolico, è solo un piccolo problema rispetto alle altre questioni aperte, come l’exit strategy dall’Afghanistan – perché il paradigma della guerra continua – e il durissimo confronto con Israele sulla nascita dello Stato palestinese. In questo senso Obama è un leader solitario, non omogeneo alla struttura politica al vertice della quale si trova.
Questa sua non omogeneità è stata sottolineata con fosche previsioni anche da un «esperto» di vicende del potere come il venerabile maestro Licio Gelli, che in un intervista tv profetizzò l’eliminazione di Obama in quattro o cinque mesi. La profezia nera di Gelli non si è avverata, ma i nodi stanno venendo al pettine e dobbiamo aspettarci scontri fra Presidente e Congresso e apparati che metteranno a dura prova e potrebbero anche bloccare o rovesciare il sogno di Obama di ridimensionare l’impero per riportare gli Stati uniti nell’alveo della comunità delle nazioni che collaborano per la soluzione dei problemi globali.
Obama ha dalla sua la forza del grande consenso popolare tributatogli dal popolo americano, che finora gli ha fatto da scudo. Riuscirà questo scudo a essere impenetrabile ai fulmini delle anime nere dell’impero?