Dalla criminalizzazione dell’emarginazione sociale alla decriminalizzazione del malaffare
Siamo tutti consapevoli che viviamo un tempo di crisi della legalità costituzionale alimentata dalla inusitata confusione fra potere economico, potere politico e potere mediatico. Il punto di massima crisi è rappresentato proprio dalla crisi della legge che ha cambiato natura attraverso un percorso che attraverso le c.d. leggi “ad personam” è pervenuto alla corruzione della funzione della legge. La funzione della legge come strumento di regolazione degli interessi per perseguire il bene pubblico è stata rinnegata da una politica che trasforma in legge gli interessi privati di una singola persona o di un ristrettissimo ceto di privilegiati, fino al punto da cancellare l’idea stessa che i pubblici poteri traggano la loro ragione di essere in funzione del bene pubblico.
La crisi della legge è trainata dalla crisi del principio di eguaglianza. Sotto questo profilo sono di grande attualità le osservazioni di Gustavo Zagrebelsky (La repubblica, 26/11/2008). “Ciò che davvero qualifica e distingue i regimi politici nella loro natura più profonda e che segna il passaggio dall’ uno all’ altro, è l’ atteggiamento di fronte all’ uguaglianza, il valore politico, tra tutti, il più importante e, tra tutti però, oggi il più negletto, perfino talora deriso, a destra e a sinistra. Perché il più importante? Perché dall’ uguaglianza dipendono tutti gli altri. Anzi, dipende il rovesciamento nel loro contrario. Senza uguaglianza, la libertà vale come garanzia di prepotenza dei forti, cioè come oppressione dei deboli. Senza uguaglianza, la società, dividendosi in strati, diventa gerarchia. Senza uguaglianza, i diritti cambiano natura: per coloro che stanno in alto, diventano privilegi e, per quelli che stanno in basso, concessioni o carità. Senza uguaglianza, ciò che è giustizia per i primi è ingiustizia per i secondi.(.). Senza uguaglianza, le istituzioni, da luoghi di protezione e integrazione, diventano strumenti di oppressione e divisione (.) Nell’ essenziale: senza uguaglianza, la democrazia è oligarchia, un regime castale. (.) La costituzione – questa costituzione che assume l’ uguaglianza come suo principio essenziale – è in bilico proprio su questo punto. Noi non possiamo non vedere che la società è ormai divisa in strati e che questi strati non sono comunicanti. Più in basso di tutti stanno gli invisibili, i senza diritti che noi, con la nostra legge, definiamo “clandestini”, quelli per i quali, obbligati a tutto subire, non c’ è legge; al vertice, i privilegiati, uniti in famiglie di sangue e d’ interesse, per i quali, anche, non c’ è legge, ma nel senso opposto, perché è tutto permesso e, se la legge è d’ ostacolo, la si cambia, la si piega o non la si applica affatto.(.) Se si accetta tutto ciò, il resto viene per conseguenza. Viene per conseguenza che la coercizione dello Stato sia inegualmente distribuita: maggiore quanto più si scende nella scala sociale, minore quanto più si sale; che il diritto penale, di fatto, sia un diritto classista e che, per i potenti, il processo penale non esista più.”
Un sistema penale a ferro di cavallo:
a) Il diritto penale del nemico
La rottura del principio di eguaglianza ha dei riflessi pesantissimi nel campo del diritto penale dove, attraverso un’evoluzione che dura da tempo, ma che ha visto una straordinaria accelerazione negli ultimi due anni, si è formato un sistema a ferro di cavallo i cui due estremi sono un diritto penale (e processuale) del nemico ed un diritto penale (e processuale) dell’amico.
Il diritto penale del nemico esprime la tendenza a colpire le fasce sociali più deboli, immigrati, tossicodipendenti, Rom, senza casa, indicati come “nemici pubblici” ai quali riservare un trattamento penale differenziato e di particolare disfavore, che si spinge fino al punto di creare un vero e proprio diritto penale per tipo d’autore.
Sull’altro versante del ferro di cavallo, si colloca una disciplina di favore per i privilegiati che, iniziata sotto tono, si sta avviando verso traguardi di impunità che, qualche anno fa, non avremmo neppure potuto immaginare, in quanto si tratta di fenomeni che non si sono mai verificati negli ordinamenti di democrazia “occidentale”.
Uno degli esempi più chiari di questo sistema penale double face è rappresentato dalla riforma della prescrizione introdotta con la legge ex Cirielli (L. 5/12/2005 n. 251).
All’epoca taluni protestarono, indicandola come l’ennesima legge ad personam per favorire i soliti noti. Indubbiamente tali critiche coglievano una parte della verità e l’esito del processo Mills e di centinaia di altri processi per corruzione, concussione e reati dei colletti bianchi dimostra che la riduzione dei termini di prescrizione ha ridotto l’area della punibilità, rendendo più facile per i ceti privilegiati sfuggire alle maglie della repressione penale.
Però l’altro lato della verità, rimasto oscuro è l’ampliamento dell’area della punibilità per quelle forme di criminalità che sono direttamente collegate a situazioni di emarginazione o di degrado sociale. Il pubblico ufficiale condannato per concussione, difficilmente può trovarsi nella condizione di recidiva specifica reiterata infraquinquennale. Tale condizione, invece, non è infrequente per quelle fasce di popolazione nelle quali la devianza criminale è collegata ad una particolare condizione di vita, come per es. la tossicodipendenza.
Quindi uno stesso fatto può rimanere punibile per un periodo di tempo molto più lungo, a seconda del tipo di autore.
Tanto per fare un esempio, la cessione di piccole quantità di sostanze stupefacenti, se commessa da un Vip nell’ambito di un coca-party è un reato che si prescrive dopo 7 anni e sei mesi, se commessa da un tossico dipendente, che grazie alla sua condizione ha accumulato più condanne penali ed è stato dichiarato delinquente abituale, il reato si prescrive dopo 12 anni.
La legge ex-Cirielli ha introdotto una disciplina in cui i limiti temporali per la punibilità non sono dipendenti dalla obiettiva gravità del reato, ma sono costruiti sul tipo di autore. Un fatto commesso da una persona “perbene” è meno grave (e meno punibile) dello stesso fatto commesso da una persona “per male” che, nella generalità dei casi è un emarginato.
Il contrasto alla devianza criminale, che costituisce l’oggetto del diritto penale, è stato costruito come contrasto all’emarginazione sociale, cioè come criminalizzazione dell’emarginazione sia attraverso un’ipertrofia della sanzione penale, sia attraverso sanzioni modellate sul tipo di autore.
La popolazione degli immigrati rappresenta il bersaglio principale (ma non l’unico) nei confronti del quale si sperimentano le forme più gravi e discriminatorie di questa politica del diritto penale del nemico.
Nella scala delle discriminazioni il posto più in basso spetta agli immigrati in condizione di irregolarità amministrativa, i c.d. “clandestini”. In realtà non esiste una linea di demarcazione precisa fra immigrato clandestino e regolare. Quasi tutti gli irregolari, infatti, in passato sono stati irregolari e quasi tutti gli immigrati regolari possono diventare “clandestini”, da un momento all’altro. Pertanto le norme “draconiane” che sono state inventate per punire la clandestinità in realtà riguardano tutta la popolazione degli immigrati.
Attualmente (e fino a quando non si pronunzierà la Corte Costituzionale, che è stata ripetutamente investita del problema) un reato commesso da un “clandestino” è punito in modo più grave rispetto allo stesso reato commesso da un italiano o uno straniero regolare, in quanto con il primo “pacchetto sicurezza” è stata introdotta l’aggravante di clandestinità (si tratta dell’art. 61, n. 11 bis c.p. introdotto dal D.L. 23 maggio 2008 n. 92, convertito con modificazioni nella L. 24 luglio 2008 n. 125).
Come se non bastasse è divenuta reato la stessa condizione dell’immigrato irregolare. Con il reato di clandestinità si esce fuori dal diritto penale del fatto, non viene incriminato un fatto, un comportamento, un’azione giudicata antisociale, ma viene punita una condizione umana, la condizione del migrante che viene trasformato in una persona “illegale”.
Una delle disposizioni più fortemente criminogene è quella che colpisce lo straniero che trasgredisca l’ordine di espulsione. Questo reato è nato nel 1998 come contravvenzione, punita con la pena dell’arresto da sei mesi ad un anno ed è diventato delitto nel 2004 (D.L. 14 settembre 2004 n. 241, convertito con modificazioni nella L. 12/11/2004 n. 271), punito con la reclusione da 1 a 4 anni, che diventano 5 per chi abbia fatto reingresso dopo l’espulsione.
In questo modo è stato inventato un reato artificiale, che può essere commesso soltanto da un determinato tipo d’autore, che viene punito , e per giunta con una pena molto più grave di quella prevista per il falso in bilancio o le false comunicazioni sociali (art. 2621 e 2622 c.c. come sostituiti dalla L. 28/12/2005 n. 262), sebbene questi reati tipici dei colletti bianchi, possano causare danni patrimoniali enormi ai risparmiatori, come ben sanno tutti quelli che hanno comprato le azioni parmalat.
Per far le dovute proporzioni, basti considerare che il fascismo, con le leggi razziali, aveva inventato un reato analogo, previsto dal Regio Decreto legge n. 1381 del 7 settembre 1938, che puniva l’ebreo straniero inottemperante all’obbligo di lasciare il territorio italiano, (mediante richiamo all’art. 150 del TULPS) con l’arresto da tre a sei mesi.
Oltre alle norme ritagliate sull’immigrato come tipo di autore, sono state introdotte un complesso di norme che aggravano la criminalizzazione dell’emarginazione sociale e che sono rivolte indiscriminatamente nei confronti dei soggetti sociali più deboli, immigrati, tanto regolari che irregolari, Rom, senza casa, tossicodipendenti, poveri in genere.
Basti pensare alla norma che ha raddoppiato la pena edittale per un reato tipico dei soggetti marginali, vale a dire le false dichiarazioni sulla propria identità personale (art. 495 c.p.). Reato che il codice Rocco puniva con la reclusione fino a tre anni per il quale il codice Maroni ha raddoppiato la punizione portandola fino a sei anni, con un minimo di anni due, se le false dichiarazioni sono rese all’A.G., come accade nella generalità dei casi (nuovo testo dall’art. 495, novellato dalla L. 24/7/2008 n. 125). Tanto per fare un paragone, chi corrompe un P.U. per fargli compiere un atto contrario ai propri doveri d’ufficio (art. 319 c.p.) incorre in una pena minore, essendo prevista una pena massima di 5 anni.
Un altro caso di scuola di norma mirata a colpire l’emarginazione è quella che ha sostituito una contravvenzione prevista dall’art. 671 c.p., che puniva con l’arresto da tre mesi ad un anno chi impiegava i minori per l’accattonaggio, trasformando lo stesso fatto in un delitto (art. 600 octies) punito con la reclusione fino a tre anni.
Ma una norma ancora più odiosa è quella che ha alzato il prezzo della libertà, prevedendo che per ottenere la sostituzione della pena detentiva con la pena pecuniaria non bisogna sborsare più 38 euro per ogni giorni di reclusione convertito, ma la bellezza di €. 250,00 (nuovo testo dell’art. 135 c.p.). In questo modo a chi è più povero viene preclusa di fatto la possibilità di avere la sostituzione della pena detentiva nei casi in cui la legge lo prevede.
In questo florilegio di arnesi per accrescere la criminalizzazione dell’emarginazione sociale, brilla come una stella la norma che ha reintrodotto il discusso reato di oltraggio.
L’oltraggio è stato reintrodotto come reato, però saranno punibili solo i poveri. Infatti, ove l’imputato abbia riparato il danno, mediante il risarcimento sia nei confronti della persona offesa che nei confronti dell’ente di appartenenza, il reato è estinto (art. 341 bis c.p. introdotto dalla L. 94/2009).
E’ questo il primo esempio di reato double face.Il reato lo possono commettere tutti, però solo i poveri possono essere puniti.
b) il diritto penale dell’amico.
Se il diritto penale fa la faccia feroce nei confronti dell’emarginato, identificato come nemico pubblico, questa tendenza si sposa con l’orientamento di segno opposto nei confronti dei soggetti privilegiati. In questo sistema a ferro di cavallo, all’estremo opposto del diritto del nemico, si colloca il diritto dell’amico.
Questo diritto dell’amico nasce come un diritto di classe, prefigurando un’attenuazione della responsabilità penale (e della punibilità in concreto) nei confronti della devianza tipica dei colletti bianchi, cioè di determinati ceti privilegiati.
Abbiamo già accennato alla riforma della prescrizione ed alla riforma del falso in bilancio, che ha reso in pratica quasi non punibile la falsificazione dei bilanci delle società sebbene si tratti di un reato che può avere conseguenze sociali anche molto gravi.
Fin qui ci troviamo di fronte ad un diritto di classe, feroce con i deboli e debole con i forti.
Ma nell’ultimo anno si è avviato un fenomeno che ha caratteri eversivi nei confronti della giurisdizione penale come funzione fondamentale dello Stato di diritto.
Con le nuove norme in gestazione sulle intercettazioni ed il c.d. processo breve, il diritto dell’amico fa un salto di qualità. Non si tratta più di favorire un ceto sociale di privilegiati, com’è avvenuto con la riforma del falso in bilancio, qui si mette mano alla giurisdizione, che viene scardinata. Alla funzione del controllo di legalità che viene paralizzata nei confronti di quei fenomeni che dovrebbero suscitare il massimo allarme sociale, come per es. la criminalità organizzata e la mafia.
Si parte con la riforma delle intercettazioni che toglie dalla cassetta degli attrezzi della polizia e della magistratura inquirente (o li rende praticamente inutilizzabili) quegli strumenti di indagine che la tecnologia aveva reso particolarmente efficaci nel contrasto ai fenomeni criminali. E’ come se agli Ospedali si vietasse di effettuare indagini avvalendosi della TAC o della risonanza magnetica o della laparoscopia. Immaginate come funzionerebbe il sistema sanitario e quanto si abbasserebbe il livello di tutela della salute!
Questi strumenti di indagine sono particolarmente utili per determinati tipi di reati che, a differenza dei reati di strada, vengono commessi in modo non visibile e per questo sono particolarmente insidiosi. Senza intercettazioni non vi sono processi per corruzione, concussione ed altri reati in danno della pubblica amministrazione. L’area della punibilità, già ristretta dalla legge ex-Cirielli, in questo modo viene ulteriormente compressa. Se malgrado tutte queste restrizioni, qualche procedimento per corruzione dovesse sopravvivere, allora ci penserà la legge sul processo breve, che calerà la sua scure e cancellerà per sempre il processo, restituendo la piena impunità ai soggetti coinvolti.
I processi per i reati dei colletti bianchi che riusciranno a sfuggire al gorgo della prescrizione, saranno inevitabilmente destinati a naufragare nel gorgo del processo breve. Più gravi saranno i fatti sottoposti ad accertamento giudiziario (pensiamo per es. al caso Parmalat o alla clinica degli orrori di Milano), più complicato sarà il processo e più inevitabile sarà la scure del processo breve.
L’accertamento dei reati economico-finanziari è piuttosto complesso per cui è facile prevedere che, nella generalità dei casi, non sarà possibile rispettare il termine di decadenza della giurisdizione previsto nella legge del “processo breve”.
Un’altra conseguenza è che sarà notevolmente indebolita l’azione di contrasto alla criminalità mafiosa in quanto, pur essendo imprescrittibili i più gravi reati mafiosi, la legge offrirà ai clan la zattera di salvataggio dell’estinzione del processo.
Il 15 gennaio scorso (2010) la Cassazione ha posto fine al processo al c.d. clan dei casalesi, confermando le condanne inflitte ad un gruppo malavitoso le cui micidiali attività sono state descritte mirabilmente in Gomorra dallo scrittore Roberto Saviano.
Orbene, se fosse stata in vigore in passato la legge sul processo breve, né i casalesi, né i boss di cosa nostra, né gli assassini del capitano Basile, né gli assassini di Falcone e Borsellino e di tanti altri, vittime delle organizzazioni criminali, sarebbero stati assicurati alla giustizia. Dopo essere stati individuati e processati, questi personaggi sarebbero stati rimessi, tutti o quasi tutti, in libertà per la decadenza del potere dei giudici di giudicarli.
A questo punto l’evoluzione del diritto penale dell’amico diventa piuttosto inquietante, perché si sta passando da un assetto di giustizia di classe ad un assetto di devastazione della funzione giurisdizionale, a beneficio dei più ricchi, dei più furbi e di coloro che sono più pericolosi.