1. La dicotomia fra la giustizia ed il diritto.
La dicotomia fra la giustizia ed il diritto è una costante storica antichissima, com’è una costante storica la lotta per il diritto e per la giustizia, poiché giustizia e diritto non coincidono.
Invero giustizia e diritto sono accumunati dai profeti: “nel deserto prenderà dimora il diritto e la giustizia regnerà nel giardino, effetto della giustizia sarà la pace, frutto del diritto una perenne sicurezza” (Isaia, 32, 16-17), ma in realtà il loro dualismo e la loro dialettica attraversano tutta la storia dell’Occidente, sicchè la giustizia, oltre ad essere assunta come punto di vista interno al diritto, rimane anche come un punto di vista esterno che ci permette di giudicare il diritto.
La tensione fra il Diritto e la Giustizia risale all’origine della nostra civilizzazione ed è stata mirabilmente espressa nel mito di Antigone. Antigone infrange la legge del Tiranno di Tebe, Creonte, e da sepoltura al fratello ucciso, in nome di una legge superiore, iscritta nella natura dell’essere umano. Sofocle dice che ella compie un “santo crimine”: crimine rispetto alla legge, santo rispetto alla giustizia che esprime.
Il conflitto fra Antigone e Creonte rappresenta il dilemma sempre ricorrente fra le leggi non scritte dell’umanità (agrafoi nomoi) e le dure leggi del potere, fra la “Pietas” e l’ ”Auctoritas”. Quel conflitto che i Romani avevano risolto senza esitazioni a favore dell’Auctoritas, fondando la loro organizzazione sociale sul motto: “dura lex, sed lex”, arrivando addirittura a concepire il diritto come massimo dell’ingiustizia: “summum ius, summa iniuria”.
Questa concezione viene radicalmente rovesciata dal Cristianesimo che antepone di nuovo la giustizia al diritto. E’ il cristianesimo ad affermare che l’obbedienza al Sovrano, pur doverosa, trova un limite nell’obbedienza dovuta a Dio: “Obedire oportet Deo, magis quam hominibus” (Atti, 25,9).
Era indubbiamente ispirato da questa verità l’arcivescovo del Salvador. Mons. Oscar Arnulfo Romeo che, in quell’omelia che segnò la sua condanna a morte, il 23 marzo del 1980, rivolse un appello accorato ai soldati, sciogliendoli dal vincolo dell’obbedianza ad ordini disumani: “fratelli siete del nostro stesso popolo, perchè uccidete i vostri fratelli campesinos? Davanti all’ordine di uccidere, deve prevalere la legge di Dio che dice: non uccidere. Nessun soldato è obbligato ad obbedire ad un ordine contro la legge di Dio. E’ tempo di recuperare la vostra coscienza, di obbedire prima alla vostra coscienza che all’ordine del peccato.”
Questa contraddizione, che c’è sempre stata nei secoli, ha alimentato la concezione del diritto naturale e le controversie fra i giusnaturalisti ed i giuspositivisti. I primi sostenevano che il vero diritto è quello che corrisponde ai valori, ad una verità che discende dall’alto, un diritto che attua la giustizia; i secondi sostenevano, invece che il vero diritto è quello emanato dall’autorità legittima, che ha il potere di farlo. Come ha scritto Hobbes: “auctoritas non veritas acit legem”. Di qui la discussione se è giusto quello che è comandato da una autorità che ha il potere di farlo o se può essere comandato solo quello che è giusto: iustum quia iussum ovvero iussum quia iustum.
Questo conflitto attraversa tutta la storia dell’Occidente ed arriva alla tensione massima che sia possibile concepire nella prima metà del secolo scorso quando, attraverso l’esperienza degli Stati totalitari, gli Stati fascisti e lo Stato nazista, esso assume una dimensione quasi metafisica, ove si tenga presente che quegli apparati statali che organizzavano la discriminazione, la segregazione e lo sterminio, almeno nella fase iniziale, rispondevano al modello dello Stato di diritto, fondato su un’organizzazione dei poteri pubblici, regolata dalle leggi e dal diritto.
In quel periodo in Italia, noi abbiamo avuto una dimostrazione plastica di come la giustizia potesse essere espunta dal diritto, poiché leggi ontologicamente ingiuste come le leggi razziali, sono state inserite nell’ordinamento giuridico in quanto perfettamente conformi alle procedure costituzionali all’epoca vigenti per cui nessuno poteva dubitare della loro legalità. Se noi prendiamo per esempio la legge con la quale fu statuita l’espulsione dalle scuole di ogni ordine e grado degli insegnanti e degli studenti “di razza ebraica” (R.D. 5 settembre 1938 n. 1390), vediamo che si trattava di un decreto legge, ritualmente emanato dal Re Imperatore, dopo essere stato deliberato dal Consiglio dei Ministri, in conformità con l’art. 3 della Legge 31 gennaio 1926 n. 100. Il decreto, munito del visto del guardasigilli, Solmi, fu regolarmente registrato alla Corte dei Conti, nel Registro degli Atti del Governo. Le leggi razziali entrarono regolarmente nell’ordinamento giuridico, anche se ontologicamente ingiuste, perchè, fino al 1945, il diritto trovava la sua giustificazione soltanto nelle procedure attraverso le quali la volontà del Sovrano veniva resa obbligatoria per tutti attraverso la sua trasformazione in legge. Questa totale separazione fra le ragioni del diritto e quelle della giustizia ha portato, in una epoca storica di crisi della ragione, alla massima tensione possibile fra la giustizia ed il diritto.
2. La svolta del 1945.
Questa dicotomia fra la forza ed il diritto è stata definitivamente superata nel 1945, quando l’umanità, stremata dalla tragedia della II guerra mondiale, ha operato una cesura con il passato ed ha aperto gli orizzonti ad una storia nuova.
Con la Carta delle Nazioni Unite, la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e le nuove Costituzioni democratiche nasce un ordinamento nuovo di istituzioni e diritti, basato sul riconoscimento di una tavola di valori universali, che viene posta a fondamento della legittimità degli Stati e della convivenza pacifica fra le Nazioni.
Ripensiamo al preambolo della Dichiarazione universale:
“Considerato che il riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana e dei loro diritti uguali ed inalienabili costituisce il fondamento della libertà, della pace e della giustizia nel mondo;
Considerato che il disconoscimento ed il disprezzo dei diritti umani hanno portato ad atti di barbarie che offendono la coscienza dell’umanità e che l’avvento di un mondo in cui gli essere umani godano della libertà di parola e di credo e della libertà dal timore e dal bisogno è stato proclamato come la più alta aspirazione dell’uomo.”
Non è retorico affermare che la Dichiarazione Universale rappresenta un punto di svolta nella storia e costituisce una sorta di Magna Carta dell’Umanità.
Essa è il punto più alto della svolta che la Comunità internazionale ha operato nel 1945, creando un nuovo ordinamento di istituzioni e diritti, a partire dalla Carta della Nazioni Unite, inteso a costruire la pace attraverso il diritto ed a cambiare il diritto, inserendovi come suo connotato essenziale, il riconoscimento della dignità della persona e dell’universalità dei suoi diritti fondamentali.
Non è un caso che la Dichiarazione universale sia entrata in vigore lo stesso anno nel quale è entrata in vigore la Costituzione italiana. L’accostamento tra i due documenti non è casuale: entrambi sono il frutto dello stesso spirito, dello stesso “grande fatto globale, cioè i sei anni della seconda guerra mondiale”, come per le origini e i fondamenti della nostra costituzione ebbe a dire Giuseppe Dossetti nel 1994. La terribile guerra e gli eventi che la avevano preceduta e causata, il drammatico trionfo dei regimi fascisti e nazista, la passione e la lezione della resistenza, generarono infatti a livello globale la rinascita d’una profonda riflessione sulla condizione umana che portò alla volontà di creare un nuovo assetto per molti paesi e per tutto il mondo (U.Allegretti). La Costituzione è per l’Italia la conquista di un ordinamento fondato sui diritti fondamentali dell’essere umano e sulla democrazia politica ed economica; la Dichiarazione universale segna “la proiezione dei diritti umani sanciti dalle costituzioni democratiche sul piano internazionale” (A. Cassese), inaugurando così una nuova fase della vita del mondo e una nuova concezione del diritto internazionale che, da ordinamento che ha per soggetti solo gli Stati tende a trasformarsi in un sistema in cui l’uomo è esso stesso soggetto, con i suoi diritti e i suoi doveri. La Dichiarazione sviluppa i semi contenuti nella Carta delle Nazioni unite, approvata nel 1945, che aveva già prefigurato questo nuovo orizzonte affermando nel suo preambolo “la fede nei diritti fondamentali dell’uomo, nella dignità e nel valore della persona umana”, e ponendo, per conseguenza nell’art. 1.3 tra i compiti della nuova Organizzazione quello di “promuovere e incoraggiare il rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali”.
Da qui nasce quella grande codificazione del diritto internazionale dei diritti umani a cui appartengono la Convenzione internazionale contro il genocidio, la Convenzione europea per di diritti dell’Uomo (CEDU), i Patti per i diritti civili e politici e le libertà fondamentali, i Patti per i diritti economici sociali e culturali, la Convenzione contro la tortura, la Convenzione contro le discriminazioni della donna, la Convenzione contro la discriminazione razziale, la Convenzione sui diritti del fanciullo e – da ultima – la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, che attraverso il Trattato di Lisbona finalmente ha acquistato la dignità di fonte del diritto comunitario.
Attraverso questi grandi eventi costitutivi dell’ordine giuridico nazionale ed internazionale è stata superata – almeno in linea di tendenza – la contraddizione che c’è sempre stata fra Diritto e Giustizia, fra la Pietas e l’Auctoritas: la giustizia incorpora il diritto ed il diritto incorpora la giustizia.
Secondo Italo Mancini, la giustizia è la gloria del diritto, è questo il frutto del novecento, qui c’è il portento dell’Occidente, l’anima del suo ethos. La giustizia non più come modello astratto appartenente al mondo ideale, non più come verità esterna al diritto, tale da dover in esso precipitare dall’alto, ma incorporata nel diritto positivo, nello ius positum, e presente nel diritto internazionale, nella costituzioni e nelle leggi.
Per questo dal 1945 non è più concepibile un diritto ontologicamente ingiusto come lo fu quello del 3° Reich e non è più possibile che la giustizia possa essere perseguita o praticata fuori dal diritto o contro il diritto.
Dal 1945 noi non possiamo più concepire un diritto della discriminazione sociale, un diritto dell’apartheid, un diritto della tortura, un diritto che regoli la schiavitù o la tratta degli esseri umani, così come non possiamo più concepire un diritto che autorizzi gli Stati a fare ricorso alla guerra come strumento supremo di regolamento dei loro interessi e quindi come giurisdizione di ultima istanza.
Questo non vuol dire che la giustizia trionfi nelle nazioni e che la guerra sia uscita dalla storia, come ci avevano promesso i padri costituenti delle Nazioni Unite, però – certamente – la guerra, come l’ingiustizia, sono uscite dal diritto.
3. Il rapporto fra giustizia e diritto nella Costituzione italiana.
Nella Costituzione italiana il canale attraverso il quale la giustizia è penetrata nell’ordinamento giuridico è rappresentato dal principio personalista incardinato negli articoli 2 e 3 della Costituzione.
La formula dell’art. 2: “la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità” significa che la persona umana, nella sua concreta individualità sociale, è un valore storico-naturale, un valore originario, che l’ordinamento deve riconoscere e rispettare in ogni circostanza. Per questo i suoi diritti fondamentali (enunciati in modo più specifico nella parte I della Costituzione) sono “inviolabili”, non possono essere cancellati o manomessi dall’ordinamento, neppure con il procedimento di revisione costituzionale, né possono essere sacrificati sull’altare della ragione di Stato, o di interessi collettivi. Infatti, con la sentenza n. 1146/1988, la Corte Costituzionale ha ribadito che: “la Costituzione italiana contiene alcuni principi supremi che non possono essere sovvertiti o modificati nel loro contenuto essenziale, neppure da leggi di revisione costituzionale o da altre leggi costituzionali. Tali sono tanto i principi che la stessa costituzione esplicitamente prevede come limiti assoluti al potere di revisione costituzionale, quali la forma repubblicana [art. 139], quanto i principi che, pur non essendo espressamente menzionati fra quelli non assoggettabili al procedimento di revisione costituzionale, appartengono all’essenza dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione..”
Fra questi valori supremi, indubbiamente, rientra la concezione dell’eguaglianza, che rappresenta uno sviluppo naturale del principio personalista. Se ogni uomo è un valore, è chiaro che questo valore non può essere discriminato e non possono esistere gerarchie fra le persone nel godimento dei diritti. Per questo, recita l’art. 3 della Costituzione: “tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzioni di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.”
L’eguaglianza nei diritti e nei doveri, con la conseguente l’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, è una delle fondamenta dell’intero edificio costituzionale e costituisce un postulato essenziale per vagliare le legittimità delle leggi e l’operato dei Governi. Uno dei corollari dell’eguaglianza (formale) è il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale, affermato dall’art. 112, che, pertanto, non può essere abbandonato senza realizzare un vulnus al valore (supremo) dell’eguaglianza.
Tuttavia il principio dell’eguaglianza formale (che è qualcosa di profondamente differente dalle pari opportunità) non costituisce un ostacolo per apprezzare il valore delle differenze e per promuovere processi di emancipazione sociale.
E’ fondamentale, a questo riguardo, il secondo comma dell’art. 3 che impone alla Repubblica di “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
Il principio personalista circola in tutta la Costituzione ed orienta istituti e situazioni giuridiche diverse.
Per questo la guerra è stata ripudiata (art. 11), perché si tratta di una attività che non può compiersi se non attraverso la distruzione di persone umane, cioè di valori storico-naturali di cui l’ordinamento non può disporre.
Per questo la pena di morte non è ammessa e le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità (art. 27) e devono tendere alla rieducazione del condannato.
Il principio personalista pone delle limitazioni “ontologiche” all’esercizio del potere politico e di ogni altro potere e costituisce un temperamento dello stesso principio democratico.
Come ha osservato Raniero La Valle: “I diritti fondamentali dell’uomo non sono solo dei diritti riconosciuti all’uomo come fondamentali, sono l’uomo messo a fondamento del diritto. Essi altro non significano se non che la persona della donna e dell’uomo, in quanto fondamenta, sono inviolabili, e ciò che attiene al loro essere stesso come persona, la libertà, la dignità i diritti civili e politici, ma anche, secondo le estensioni successive, il lavoro, la salute, l’istruzione, la casa, sono beni irrecusabili, appartengono ad una sfera protetta che neanche una maggioranza può revocare.
Una democrazia costituzionale è tale se riconosce che ci sono valori, beni e diritti sottratti alla decisione; in tal modo diventa “sacro”, ossia inviolabile, ciò che è comune. Sacro non è l’idolo, non è il potere, non è la persona del re o il popolo sovrano, sacre sono le persone dell’uomo e della donna comuni: e questa è la laicità.”
4. Il rapporto fra giustizia e laicità nella Costituzione italiana.
A questo punto si impone una precisazione: cosa centra la laicità con la giustizia e con i diritti fondamentali?
Orbene, l’articolazione forse più importante del principio personalista, che – come abbiamo visto – è il canale attraverso il quale la giustizia penetra nell’ordinamento, è il principio della laicità.
Nella Costituzione esistono dei valori supremi (per esempio la difesa della Patria), ma il metro per giudicare questi valori supremi è la persona umana; il che significa che non ci possono essere esigenze, anche fondate su valori, su interessi, su calcoli di utilità che possano consentire di rompere questo valore fondante che sono i diritti inviolabili della persona.
In ciò consiste il fondamento della laicità. Da questa concezione dell’uomo come fondamento del diritto nasce la laicità. Il fondamento della laicità è basato sul principio personalista. Non tanto sugli articoli 7 e 8 della Costituzione che regolano i rapporti fra lo Stato e la Chiesa cattolica ed assicurano la libertà di religione. Anche in altri ordinamenti è assicurata la libertà o la coesistenza fra diverse religioni, con la conseguente neutralità dello Stato rispetto al fenomeno religioso. Ma questo non assicura la laicità dell’ordinamento. Basti pensare agli Stati Uniti d’America, dove ogni azione dei pubblici poteri, persino l’invasione dell’Irak, o l’esecuzione di una condanna a morte, viene compiuta in nome di Dio.
La laicità nasce dal riconoscimento che il valore uomo non è bilanciabile con altri valori, perché è un valore fondante. A differenza di altri ordinamenti, la Costituzione non ci consente di fare un bilanciamento fra l’esigenza di sicurezza di una collettività, organizzata in comunità politica, e il diritto alla vita di ciascun cittadino. Ciò perché il diritto alla vita ed alla dignità essenziale della persona è assolutamente inviolabile e non può essere superato dall’azione dei pubblici poteri. La persona rappresenta un’alterità, un valore insormontabile, che non può essere annientato. I suoi diritti possono essere compressi, in certe situazioni , nei limiti della legge, ma il suo valore non può essere annientato. Nel tempo di Guantanamo, in cui – sotto la presidenza Bush – si discuteva in occidente di sospendere l’habeas corpus e di rilegalizzare la tortura, in nome delle esigenze della sicurezza, la Costituzione sfida il fondamentalismo della ragione politica e pone un argine invalicabile all’arbitrio del potere e dei potenti, in nome del valore dell’uomo.
Eppure è proprio per questo che la Costituzione viene accusata di relativismo morale.
Nel tempo recente si è sviluppato in Italia un forte dibattito sui diritti degli omosessuali, sulle coppie di fatto e sulla loro regolamentazione legale in cui si sono affrontate differenti concezioni.
Questa materia si deve confrontare con impostazioni culturali o filosofiche particolarmente sensibili. Si potrebbe citare, per esempio, un documento della Congregazione della dottrina delle fede del 2003, firmato dall’allora Cardinale Joseph Ratzinger, che si esprime così: “La Chiesa insegna che il rispetto verso le persone omosessuali non può portare in nessun modo all’approvazione del comportamento omosessuale oppure al riconoscimento legale delle unioni omosessuali. Il bene comune esige che le leggi riconoscano, favoriscano e proteggano l’unione matrimoniale come base della famiglia, cellula primaria della società. Riconoscere legalmente le unioni omosessuali oppure equipararle al matrimonio significherebbe non soltanto approvare un comportamento deviante, con la conseguenza di renderlo modello nella società attuale, ma anche offuscare valori fondamentali che appartengono al patrimonio comune dell’umanità. La Chiesa non può non difendere tali valori per il bene degli uomini e di tutta la società”.
In questo documento è esposta una concezione che nasce da un magistero che condanna le relazioni umane di tipo omosessuale, che, in altri contesti religiosi o politici viene ribadita o riproposta con molta maggiore virulenza.
In altri contesti politici esistono legislazioni che puniscono le relazioni omosessuali come un fatto criminale e prevedono – addirittura – la pena di morte, che viene praticata, senza alcun pudore in Iran, dove solo qualche hanno fa due ragazzi di 17 e 18 anni sono stati impiccati per il reato di “sodomia”.
Eventi simili costituiscono la controprova che senza la laicità non ci può essere giustizia: giustizia e laicità o marciano insieme o cadono insieme.
La Costituzione italiana, che proprio per questo viene accusata ogni giorno di relativismo culturale, non prende posizione sulle grandi questioni etiche, culturali e filosofiche che agitano il corpo sociale, ivi comprese le questioni oggetto del magistero della Chiesa Cattolica, lasciando che esse permangono nello spazio della libertà e della maturazione attraverso il dibattito ed il confronto culturale. A questo riguardo i Costituenti hanno fatto una scelta molto netta e l’hanno fatta con consapevolezza di quello che facevano, proprio perché questa scelta è stata promossa, in qualche modo, da Dossetti, da Moro, da La Pira, dai cattolici che facevano parte dell’Assemblea costituente. I padri costituenti hanno scelto un valore, il valore della persona umana; tutti gli altri valori possono esistere, possono essere agiti nei modi consentiti nella società, nello stato, nelle istituzioni ecc., ma non possono mai sopravanzare i diritti della persona, i diritti dell’individuo come singolo e come soggetto inserito nelle comunità. Noi possiamo avere tutte le concezioni religiose o filosofiche che vogliamo, anche concezioni nobilissime, ma l’ordinamento ci dice che le dobbiamo, le possiamo declinare soltanto nella misura in cui rispettano i diritti inviolabili di ciascun uomo e di ciascuna donna, poiché nessuno persona non può essere sormontata o strumentalizzata da un’ideologia, o da una fede religiosa. In altre parole, i diritti delle persone non possono essere sacrificati a un principio. Quand’anche si trattasse di un principio di grande valore culturale, di grande valore filosofico, di grande spessore etico, noi non possiamo, in nome di questo principio, distruggere o coartare quel valore storico naturale che è la persona umana: la persona è il valore fondamentale, rispetto al quale tutto il resto deve girare intorno come i pianeti girano intorno al sole.
5. Se si incrina il rapporto fra giustizia e diritto.
E’ a tutti evidente che il panorama internazionale, a partire dalla prima guerra del Golfo, dalla quale sono passati ormai quasi venti anni, è profondamente cambiato rispetto alle aspirazioni di pace e giustizia che avevano ispirato la svolta del 1945.
Questo processo di involuzione è proseguito con la guerra alla Jugoslavia, con la II guerra del golfo e con la c.d. “guerra al terrorismo” che simultaneamente hanno rilegittimato il ricorso alla guerra, come strumento ordinario della politica ed hanno ricondotto il discorso sui diritti umani all’interno di un paradigma razzista. Le guerre asimmetriche in cui i morti stanno tutti dall’altra parte, non sono semplicemente espressione della politica dei due pesi e due misure praticata dai principali paesi dell’occidente, bensì costituiscono la negazione della qualità essenziale della concezione dei diritti dell’uomo introdotta dalla Dichiarazione del 48: l’universalità.
Senza l’universalità, i diritti dell’uomo si trasformano nel loro contrario. Se la fraternità è “bianca” (ovvero “padana”), se la dignità della persona da proteggere è quella degli appartenenti al nostro gruppo sociale, etnico o religioso, allora si riapre la strada al disconoscimento ed al disprezzo dei diritti umani.
Il dato più preoccupante di questo stato di cose non consiste nelle innumerevoli “violazioni di fatto” compiute da governi, da gruppi, da singoli, e che non trovano sufficiente reazione da parte dell’opinione pubblica e dei leaders politici, bensì nel fatto che violazioni sistematiche sono compiute non con i soli comportamenti ma con quei moltissimi atti di diritto internazionale e di diritto interno che entrano in contraddizione diretta con le risoluzioni, le convenzioni e le stesse costituzioni degli Stati.
Questa serie di violazioni che avviene per via giuridica e normativa è infatti particolarmente grave perché rappresenta la punta di iceberg di una tendenza che punta a cambiare nuovamente la natura del diritto, separandolo dalla giustizia e restituendolo alla dimensione del mero comando politico reso obbligatorio dall’esercizio della sovranità.
Seguendo questa tendenza, della quale in Occidente è stato il massimo esponente il precedente Presidente americano, il diritto diventerebbe puramente e semplicemente l’arbitrio del sovrano.
Anche nel nostro paese sono stati compiuti, negli ultimi tempi, significativi passi nella direzione della contestazione per via giuridica e normativa dei diritti fondamentali, a partire dal principio supremo dell’eguaglianza, iscritti nella Costituzione italiana e nella Dichiarazione universale dei Diritti dell’Uomo.
Basti pensare al c.d. “pacchetto sicurezza”, attraverso il quale è stato introdotto una sorta di diritto penale (ed amministrativo) del nemico, inteso come sotto-sistema (sostanziale, processuale, penitenziario) differenziale, caratterizzato da una forte riduzione delle garanzie e da una significativa deroga ai principi del diritto penale liberale e destinato ad applicarsi a coloro che, percepiti come diversi, sono rappresentati come ‘nemici pubblici’ (immigrati, rom, senza casa). In virtù di questo nuovo sistema si potrà infliggere agli imputati con la pelle scura (cioè gli immigrati irregolari) una pena più elevata di quella riservata agli imputati con la pelle chiara. A 70 anni dall’introduzione in Italia delle leggi razziali, i semi delle leggi razziali sono messi di nuovo in circolazione e sparsi a piene mani nella pieghe della legislazione. Con il Regio decreto legge del 17 novembre 1938 (provvedimenti per la difesa della razza italiana) furono introdotte nell’ordinamento una serie di misure persecutorie, la prima della quali consisteva nel divieto dei matrimoni misti (art. 1: “il matrimonio del cittadino italiano di razza ariana con persona appartenente ad altra razza è proibito”). Oggi il divieto dei matrimoni misti è stato reintrodotto sotto un’altra forma, non più per escludere gli ebrei, ma per escludere una nuova categorie di persone che la legislazione e le pratiche amministrative tendono a trasformare in non-persone: gli immigrati.
L’art. 1, comma 15 della L.15 luglio 2009 n. 94, modificando il codice civile, impedisce allo straniero irregolare di contrarre matrimonio con il cittadino italiano e contemporaneamente lede il diritto fondamentale del cittadino italiano di contrarre matrimonio con la persona che ama, se si tratta di uno straniero.
Nel luglio del 1938 fu istituita presso il Ministero dell’Interno la Direzione generale per la Demografia e la Razza, con il compito di provvedere al censimento della popolazione ebraica presente in Italia, e quindi di mantenere ed aggiornare un registro degli ebrei. Oggi l’art. 3, comma 39 della L.15 luglio 2009 n. 94 prevede l’istituzione presso il Ministero dell’Interno di un analogo registro delle persone indesiderabili, questa volta non più riservato agli ebrei ma ai senza casa.
Noi viviamo in un tempo in cui la politica si sta adoperando per smantellare tutti (proprio tutti) i beni pubblici repubblicani che i Padri costituenti hanno consegnato al popolo italiano.
A cominciare dal bene supremo della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana. Questo bene è stato contestato nel suo fondamento di universalità, escludendo – come abbiamo visto – i lavoratori immigrati irregolari (cioè una popolazione di centinaia di migliaia di persone) dal godimento di quei diritti che rientrano nell’ambito inviolabile della dignità di ogni essere umano, come il diritto a contrarre matrimonio con la persona amata o il diritto alla salute, che anche se non viene rinnegato formalmente, ne viene scoraggiata la praticabilità.
Il bene supremo dell’eguaglianza viene calpestato e contestato ogni giorno di più, attraverso leggi e provvedimenti amministrativi, ordinanze dei sindaci che costruiscono la discriminazione e l’esclusione sociale nei confronti degli stranieri, dei Rom, degli emarginati e dei ceti sociali più deboli ed al tempo stesso creano privilegi castali a favore di un ceto di privilegiati a cui tutto è concesso e per i quali non c’è legge che tenga. Costoro non dovranno rispondere nemmeno dei crimini che hanno commesso o che commetteranno in futuro, come ci annunzia la legge sul “processo breve.
Fino ad arrivare all’estrema aberrazione della cattura in alto mare dei profughi che fuggono dall’Africa ed alla loro consegna forzata nella mani della Libia, in palese disprezzo delle convenzioni internazionali e delle stesse leggi che regolano l’immigrazione.
Pertanto, attraverso l’accumulo di leggi incostituzionali, di provvedimenti e pratiche amministrative discriminatorie, si è creato una sorta di un iniziale corpus iuris nel quale la giustizia viene nuovamente espunta dal diritto.
Oggi per quanto possa sembrare assurdo si ripropone di nuovo – in casi limite – il conflitto fra le leggi della Pietas ed i decreti del Sovrano, come nella vicenda di Antigone.
Un articolo di Repubblica riporta la testimonianza di un ufficiale della Guardia di Finanza:
“Questa storia dei respingimenti è uno dei servizi più crudeli che svolgiamo. E da molti mesi si registrano casi di “ammutinamento” nel senso che molti pattugliatori, che dovevano salpare dai porti liguri o toscani per darci il cambio, non partono proprio.
I nostri colleghi, giustamente, si rifiutano di svolgere questo servizio “infame” che non ci fa dormire la notte. Ma per non salpare ci vuole un motivo plausibile e quindi spesso il comandante o qualche ufficiale indispensabile si “ammalano”. Oppure sull’imbarcazione si verifica un “problema tecnico””. Anche in mare si trovano delle scorciatoie per non eseguire i “respingimenti”. “Questo, come detto, è un servizio ‘infame’, ed allora ognuno di noi si assume delle responsabilità, dei rischi. Per cui se possiamo appigliarci a qualcosa lo facciamo.”
Ed allora non possiamo non vedere che siamo arrivati ad un punto cruciale, la politica si ribella al diritto, così come l’Occidente l’ha concepito a partire dal 1945 e cerca di cambiarne i connotati. La posta in gioco è la separazione della giustizia dal diritto.
In questo modo verrebbe cancellata per sempre la lezione del novecento e le grandi carte con le dichiarazioni dei diritti diventerebbero oggetti d’antiquariato. Questo patrimonio specifico, sviluppatosi nell’occidente, ed all’interno della cultura occidentale, verrebbe cancellato, dilapidato per sempre.