Il primo maggio è un giorno di festa in (quasi) tutto il mondo. Il significato di questa festa è universale ed è ben raffigurato dal famoso quadro di Pellizza da Volpedo, il quarto Stato, che incarna un popolo di lavoratori in marcia per realizzare la giustizia ed il progresso sociale. Nel nostro ordinamento la missione del quarto Stato è stata conferita alla Repubblica, dalla splendida formula dell’art. 3, secondo comma della Costituzione italiana: “è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. E’ interessante notare che quel di fatto, che richiama la concretezza della vita, ce lo fece mettere nell’art. 3 una giovane donna, Teresa Mattei, che veniva dalla Resistenza e conosceva il carico di bisogni e speranze che tutti in quel tempo affidavano alla Repubblica, alla Costituzione, alla politica.
Quest’anno la celebrazione del primo maggio si carica di un significato particolare perchè interviene in un momento in cui, più che la festa dei lavoratori, la politica sta attivamente organizzando la festa ai lavoratori, liquidando in modo forsennato quegli approdi di civiltà giuridica, come lo Statuto dei diritti dei lavoratori, frutto delle lotte e delle conquiste del novecento.
Poichè l’agenza politica si volge al passato, anche il primo maggio quest’anno assume un significato diverso, che deve essere ripreso dal passato: giorno di festa, ma anche giorno di lotta, di resistenza e di ricomposizione della coalizione sociale per il rilancio dei diritti.
Non per caso quest’anno la ricorrenza del primo maggio cade nella fase più incandescente dello scontro politico sulle riforme e, in particolare, della riforma che racchiude tutte le altre: la riforma elettorale.
A questo punto viene da chiedersi: che rapporto c’è fra la festa dei diritti dei lavoratori e la riforma elettorale che il governo Renzi sta imponendo al Parlamento a suon di voti di fiducia?
Il rapporto lo troviamo nell’imperativo che i costituenti hanno consegnato alla Repubblica: rimuovere gli ostacoli che impediscono l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
Come fanno i lavoratori, cioè i cittadini italiani che traggono il loro sostentamento dal lavoro, a partecipare all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese, cioè, in altre parole, a concorrere a determinare la politica nazionale, come recita l’art. 49 della Costituzione?
La risposta ce la fornisce l’ordinamento democratico, che prevede la centralità di un Parlamento rappresentativo di tutti i cittadini (e quindi massimamente dei lavoratori), in un quadro di pesi e contrappesi per impedire abusi nell’esercizio dei poteri pubblici.
La prima forma di partecipazione dei lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese è quella che si determina attraverso la possibilità di avere accesso, in condizioni di eguaglianza, alle Assemblee legislative, eleggendo i propri rappresentanti.
La legge elettorale confezionata dal governo Renzi colpisce a morte la rappresentanza, consentendo ad una ristretta oligarchia posta la vertice di un unico partito di assumere il controllo del Parlamento, del Governo e dell’indirizzo politico, anche in presenza di una ridotta base di consenso.
Attraverso il meccanismo del premio di maggioranza e del ballottaggio, un partito con il 20/25% di voti popolari, diventa maggioranza per legge e può torcere a suo vantaggio gli organi di garanzia, alterando le regole del gioco.
Nello scorso mese di marzo il Presidente del Consiglio, rivolgendosi agli studenti della Luiss, ha detto:”Tra cinque anni la nostra legge elettorale sarà copiata da mezza Europa – ed ha aggiunto – il premio di maggioranza previsto nell’Italicum, consente di superare il meccanismo devastante del potere di veto da parte delle forze politiche minori”.
Noi non possiamo prevedere se l’Europa ci copierà la nostra legge elettorale, però sappiamo benissimo da dove l’ha copiata Matteo Renzi: dalla legge Acerbo del 1923, fondata sullo stesso principio del premio di maggioranza di lista, che deve consentire ad un unico partito di avere in mano la maggioranza parlamentare e le chiavi del Governo. La legge Acerbo fu lo strumento che Mussolini utilizzò per perseguire lo stesso scopo di Renzi, liberarsi del ricatto di partiti e partitini e consegnare il Governo del paese – per legge non per volontà del popolo – ad un unico partito.
Se nella legislatura precedente il giovane capo del fascismo aveva dovuto subire i condizionamenti di una serie di partiti e partitini in un governo di coalizione, nella legislatura successiva le coalizioni sparirono per incanto e tutto il potere fu consegnato nella mani di un unico partito, comandato da un solo uomo.
Nel dibattito che si svolse nel Parlamento del Regno, i liberali di sinistra ed i socialisti denunciarono il rischio di una deriva autoritaria che quella legge avrebba comportato. Il socialista Filippo Turati presentò un ordine del giorno dove asseriva che “evidente, immancabile effetto delle legge – era di -annullare in pieno la Costituzione e sostituire al regime rappresentativo un potere angustamente oligarchico.”
La storia ci ha dimostrato che Turati aveva perfettamente ragione. Se si manomette il meccanismo della rappresentanza, l’effetto non può che essere quello di introdurre un sistema oligarchico.
A questo punto che fine fanno i diritti sociali? La risposta ce l’hanno già data con il Job’s Act, che ha realizzato l’obiettivo di “eliminare le tutele costituzionali nel diritto del lavoro”, come ci aveva chiesto un anno fa l’oligarchia della finanza internazionale.