Il dibattito e le polemiche che si sono accese quest’anno per le celebrazioni del 25 aprile hanno suscitato stupore e critiche da chi non ha condiviso la scelta dell’ANPI di non escludere dalla manifestazione di Roma la partecipazione della comunità palestinese- italiana, che da sempre si riconosce nei valori della Resistenza e della Costituzione italiana.
La singolare pretesa degli eredi della Brigata ebraica e dei tifosi italiani del Governo di Israele di escludere dal 25 aprile i rappresentanti di un popolo oppresso è stata sposata con determinazione degna di miglior causa dagli opinionisti. Che imperversano sui principali mass media e da vari esponenti politici, fra cui il presidente del partito democratico, Matteo Orfini, che ha accusato l’ANPI di essere “divisiva”. Di conseguenza Orfini ha disertato il corteo dell’ANPI e si è fatto vedere assieme alla Boschi e a Casini al presidio organizzato dalla Brigata ebraica.
L’effetto provocato da questa “divisione” è che non si era mai vista – come quest’anno – tanta gente alla manifestazione del 25 aprile a Roma. Questa divisione, che certamente non è stata provocata dall’ANPI ma dai tifosi italiani di Netanyahu, è utile per meglio comprendere il significato di fondo del 25 aprile.
Molti commentatori hanno osservato che il 25 aprile è il giorno della memoria, della commemorazione della Resistenza e della guerra che portò alla liberazione dell’Europa dal nazifascismo, cosa centrano in questa commemorazione i Curdi, i Palestinesi, i Siriani o altre popolazioni che non hanno partecipato a quella vicenda storica?
Proprio questo è il punto, che significa fare memoria del 25 aprile? Orbene, se noi interpretiamo la vicenda e gli orrori del nazifascismo e le sofferenze della lotta di liberazione come un evento storico specifico, concluso con il debellamento -manu militari – di quei regimi a cui il fascismo aveva dato origine, allora hanno ragione quelli che vogliono imbalsamare la memoria.
Il fascismo ed il nazismo non torneranno mai più nella forma storica in cui noi li abbiamo conosciuti, i forni di Auschwitz non si rimetteranno a fumare un’altra volta, non avremo un’altra volta un imbianchino con i baffi che seduce le folle, perchè le tragedie storiche non si ripetono mai uguali. Sono episodi storici, nella loro specificità, conclusi.
Questo significa che dobbiamo rassegnarci a mettere la resistenza negli scaffali polverosi della storia e considerare il 25 aprile come una patetica rievocazione di un passato che non ci dice più niente, che non parla al presente?
Se noi invece poniamo attenzione al messaggio che la lotta di liberazione ha consegnato alle generazioni future, allora trascendiamo la vicenda storica perché, come ha messo in evidenza Thomas Mann, il significato di questo sacrificio non è semplicemente la resistenza, ma l’annunzio di una nuova società umana, cioè di un tempo e di una storia nuova. Non si tratta soltanto di debellare il fascismo ed il nazismo storico, si tratta di rovesciare quella storia vecchia che aveva partorito i disastri delle due guerre mondiali e dei fascismi. Di annunziare una nuova storia in cui l’umanità fosse liberata, per sempre, dalla minaccia delle guerre, delle violenze, delle discriminazioni, del disprezzo dei diritti universali dell’uomo e dei popoli.
Quest’annunzio parla al presente e ci impegna a ribellarci ad uno status quo in cui i valori universali trasmessici dalla Resistenza sono contraddetti ogni giorno ed in ogni angolo della terra. In questo senso il 25 aprile non può che essere divisivo perché ci impegna a compiere delle scelte di contestazione dell’ordine esistente.