Il percorso parlamentare per varare una nuova legge elettorale si è rimesso in moto ed in questi giorni le forze politiche si stanno confrontando in Parlamento con un testo base che riprende il c.d. Rosatellum con l’unica differenza di incrementare la quota proporzionale (con liste bloccate) al 65% e diminuire (a 231) il numero dei collegi uninominali con elezione maggioritaria a turno unico. Questa proposta presta il fianco alle stesse critiche che, a suo tempo, sono state mosse alla prima versione che fu bruscamente messa da parte dopo l’approvazione di un emendamento non concordato. Anzi questa nuova versione è peggiore della precedente perché aumenta la percentuale di seggi attribuiti sulla base di liste bloccate, mentre la libertà di scelta dell’elettore nei collegi uninominali continua ad essere manipolata attraverso il meccanismo del voto unico che fa sì che il voto dato al candidato nel collegio uninominale si trasferisca automaticamente alla lista dei candidati nel collegio plurinominale e viceversa. Ancora una volta il capo o i capi dei principali partiti potranno determinare la composizione dell’assemblea parlamentare, assegnando il seggio ai propri fedelissimi, senza che il cittadino elettore possa mettervi becco, e potranno tenere fuori dal Parlamento le minoranze sgradite.
E tuttavia addentrarsi nella discussione sui dettagli tecnici di questa o quella proposta è un esercizio che non porta a nulla se non si mette in chiaro a cosa servono le elezioni.
Nel discorso politico ci viene riproposto continuamente il mantra che le elezioni devono essere addomesticate in funzione della governabilità, ma non viene mai esplicitata fino in fondo la concezione che sostiene questo discorso. Dobbiamo ringraziare Galli della Loggia che in un editoriale sul Corriere della Sera (21 agosto) l’ha fatta emergere senza peli sulla lingua. La tesi di fondo è che le elezioni «dovrebbero servire a far decidere agli elettori non già da chi vogliono essere rappresentati, bensì soprattutto da chi vogliono essere governati». Quindi, si dovrebbe dire, non tanto a eleggere il Parlamento, ma ad eleggere direttamente il capo dell’esecutivo. Il Parlamento ci sarebbe ancora, ma in esso dovrebbe operare una maggioranza «monocolore», che si riconosca nella guida del Premier, e dunque sia ad esso sostanzialmente soggetta.
Guarda caso, questa tesi ripropone una fotografia della legge Acerbo, la legge che impose al Parlamento eletto nel 1924 una maggioranza “monocolore” che obbediva al capo del governo come una falange romana, con i risultati che tutti conosciamo.
Questa visione delle elezioni richiama una concezione della democrazia, che fu compiutamente espressa da un politologo austriaco nel 1942. La democrazia – scriveva Schumpeter nel suo saggio Capitalismo, socialismo e democrazia – è “lo strumento per giungere a decisioni politiche, in base al quale singoli individui ottengono il potere di decidere attraverso una competizione che ha per oggetto il voto popolare”.
Secondo questa impostazione, la vera funzione del voto è quella di consentire ai cittadini di scegliersi un governo “direttamente o attraverso un corpo intermedio che a sua volta genererà un esecutivo”. Ciò che davvero conta è che dalle elezioni emerga l’indicazione chiara ed univoca di un Governo e del suo capo. Insomma la democrazia, secondo questa concezione, che oggi è ritornata in voga, si risolve nel diritto dei cittadini di scegliere da chi vogliono essere comandati.
Non è questa la democrazia che i padri costituenti avevano promesso al popolo italiano quando scrivevano che la sovranità spetta al popolo. Nella loro ingenuità pensavano che il popolo dovesse contare veramente qualcosa e dovesse essere artefice – attraverso la mediazione delle istituzioni rappresentative – del proprio destino.
La legge elettorale, lungi dal rappresentare un’asettica tecnica di selezione della rappresentanza, è il principale strumento attraverso il quale si dovrebbe realizzare la democrazia costituzionale, che è fondata sulla centralità del Parlamento.
Sono le leggi elettorali che definiscono i connotati della democrazia costituzionale e danno sostanza a principi come le modalità con cui si esercita la sovranità popolare (art. 1, secondo comma Cost.); le forme in cui si realizza l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economia e sociale del paese (art. 3, secondo comma Cost.); l’esercizio del diritto di voto, che dovrebbe essere diretto, uguale, libero e segreto (art. 48) e, in definitiva, determinano se e come dare attuazione al principio secondo cui “tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale (art. 49 Cost.).
La partita che si sta giocando sulla legge elettorale è una partita sulla Costituzione. Il referendum del 4 dicembre 2016 ha riconfermato la forza ed il valore del modello di democrazia che la Costituzione ha consegnato al popolo italiano. Questo modello è stato fortemente compromesso da leggi elettorali come il porcellum che hanno prosciugato la partecipazione popolare e consegnato la formazione della rappresentanza nelle mani di una ristretta oligarchia che determina insindacabilmente la composizione delle assemblee parlamentari. Per dare seguito alla volontà espressa dal popolo italiano con il referendum bisogna invertire questa tendenza.
Respingere la tentazione della democrazia dell’investitura e restituire lo scettro al popolo sovrano, ripristinare la rappresentatività del Parlamento, rendere i cittadini protagonisti del voto restituendo loro la possibilità di scegliere i propri rappresentati, sono questi i principi con cui si deve misurare ogni proposta di riforma elettorale e sui quali bisogna interpellare le forze politiche in campo.