Ormai abbiamo superato gli otto mesi di guerra, senza che vi sia stato un solo giorno di tregua. Se alla controffensiva ucraina la Russia ha risposto mobilitando da trecentomila a un milione di coscritti e riprendendo bombardamenti in larga scala su Kiev ed altre città, diretti soprattutto contro le infrastrutture elettriche, l’Ucraina, dopo il ponte di Kerch, il 29 ottobre ha colpito un’altra volta in Crimea, con l’attacco alla base della flotta russa a Sebastopoli. Si è trattato dell’attacco più massiccio dall’inizio del conflitto, portato con armi particolarmente sofisticate, come i droni subacquei (forniti dalla Royal Navy), che ha provocato danni a quattro unità, compresa la nave ammiraglia. I russi hanno reagito sospendendo l’unico accordo negoziato con Kiev durante il conflitto, quello relativo alla creazione di un canale sicuro per l’esportazione del grano via mare. E’ evidente pertanto che il conflitto sta virando verso un’escalation incontrollabile, capace di provocare sofferenze inaudite alle popolazioni coinvolte e di avvicinare lo scontro diretto fra la NATO e la Federazione russa. In questi giorni, grazie alla crescente insofferenza dell’opinione pubblica europea ed italiana e ai ripetuti appelli del Papa, tutti invocano – a parole – la pace ma nessuno ci lascia intravedere come e quando questa guerra finirà. Intervenendo alle assise “il grido della pace” convocate dalla Comunità di Sant’Egidio, il Presidente francese, Emanuel Macron ha dichiarato che “la pace è possibile” ma sarà “quando e quella che loro decideranno (riferendosi agli ucraini) e che rispetterà i diritti del popolo sovrano (..) Non lasciamo che la pace oggi sia catturata dal potere russo. Oggi la pace non può essere la consacrazione della legge del più forte, né il cessate il fuoco che definirebbe uno stato di fatto”. Dal momento che -secondo la dottrina NATO-UE – dovranno essere gli ucraini a decidere quando e quale pace sarà possibile, è al Presidente Zelensky che dobbiamo guardare per capire quale sia la sua disponibilità a porre termine al conflitto. Ebbene Zelensky ce lo ha fatto sapere il 25 ottobre rivolgendosi ai partecipanti al vertice interparlamentare della “piattaforma di Crimea” svoltosi a Zagabria con la partecipazione di una quarantina di delegazioni, inclusa la speaker della Camera dei Rappresentanti del Congresso americano, Nancy Pelosi. Il Presidente dell’Ucraina si è espresso così: “Solo quando la bandiera ucraina sventolerà di nuovo sulla Crimea liberata il mondo potrà sentirsi sicuro e dire che la guerra è finita.” Orbene è fin troppo chiaro che per il Governo ucraino la guerra non deve limitarsi alla difesa, vale a dire a respingere le truppe d’invasione della Federazione russa ma deve spingersi oltre e ribaltare uno status quo consolidato dal 2014, consentendo alle forze armate ucraine di prendere possesso di un territorio che costituisce una Repubblica autonoma inserita nella Federazione russa. La penisola di Crimea fa parte della Russia da oltre 200 anni, nel 1954 Kruscev la “donò” all’Ucraina, ma si trattava di una mera unificazione amministrativa poiché l’Ucraina continuava a far parte dell’URSS. Nel 2014, dopo il traumatico cambio del regime politico a Kiev, il Consiglio Supremo della Repubblica di Crimea votò all’unanimità la dichiarazione d’indipendenza dall’Ucraina e chiese l’annessione alla Russia. Il 16 marzo del 2014 un referendum popolare approvò l’annessione alla Russia con il 96,77% di voti favorevoli, con la partecipazione dell’83,1% degli aventi diritto al voto. L’Ucraina non accettò l’annessione della Repubblica di Crimea alla Federazione russa. Anche l’Unione Europea rifiutò di riconoscere l’annessione ed applicò delle sanzioni commerciali alla Russia. Per la Crimea si verificò, a parti invertite, lo stesso processo che aveva portato all’indipendenza del Kossovo, che la NATO distaccò dalla Jugoslavia a seguito di un’azione di bombardamento durata 78 giorni. Quando il Kosovo, ormai separato di fatto, votò la propria indipendenza dalla Serbia il 17 febbraio 2008, quest’ultima dichiarò immediatamente di non riconoscerla. L’indipendenza del Kosovo è stata riconosciuta soltanto da una metà degli Stati membri dell’ONU, mentre l’altra metà non l’ha riconosciuta. Attualmente esiste una controversia internazionale sullo status del Kosovo, così come esiste una controversia internazionale sullo status della Repubblica di Crimea. La Costituzione italiana “ripudia la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”. Non v’è dubbio che se la Serbia decidesse di invadere il Kosovo per annullarne l’indipendenza, l’Italia dovrebbe “ripudiare” quest’azione perché non si possono risolvere le controversie internazionali con l’uso della forza. Lo stesso discorso vale per l’Ucraina, se volesse – come lascia intendere il suo governo – riprendere manu militari il controllo del territorio della Repubblica di Crimea per staccarla dalla Federazione russa, si tratterebbe di un’aggressione pura e semplice. Il fatto che gli ucraini siano stati aggrediti dalla Russia, che ha invaso una parte del loro territorio, giustifica la resistenza all’azione in corso, ma non può essere un valido pretesto per legittimare un’altra aggressione. Un’azione di forza per staccare la Crimea dalla Federazione russa, oltre ad essere inammissibile sul piano del diritto internazionale e ripudiabile, dal punto di vista della Costituzione italiana, rappresenta una provocazione che renderebbe la pace impossibile perchè la Russia, se non altro per ragioni strategiche, mai potrebbe rinunciare alla Crimea, se non a prezzo di una completa disfatta sul piano militare. Quanto sangue si deve ancora versare per consentire all’Ucraina di “vincere” la guerra con la Russia e risolvere tutte le controversie in corso? Quanti nuovi cimiteri si devono costruire? Siamo proprio sicuri che devono essere gli ucraini a decidere come e quando porre fine alla guerra?
(questo articolo è stato pubblicato in versione più breve su il Fatto Quotidiano del 1 novembre 2022 con il titolo: Un timido grido di pace nel deserto di guerra)