Il 24 febbraio la diplomazia cinese ha presentato un documento in 12 punti volto a spingere Russia e Ucraina a cessare il fuoco e ad aprire un percorso negoziale per la composizione pacifica del conflitto e il ristabilimento di un quadro di sicurezza collettiva in Europa. A fronte di un cauto apprezzamento della Russia, il piano di pace cinese è stato immediatamente respinto da Washington, da Londra e da Bruxelles, che non lo hanno degnato neanche di un commento, salvo l’osservazione che non si tratta di un piano di pace vero e proprio ma solo un’indicazione generica di principi.
Senonché la sapienza del piano cinese consiste proprio in questo, che non si tratta di un piano di pace chiavi in mano. Se la Cina avesse avanzato delle proposte specifiche sulle questioni che contrappongono i belligeranti, avrebbe trovato un muro e porte chiuse da entrambe le parti. Soltanto pochi giorni fa (il 28 marzo), il ministro degli esteri ucraino Kuleba, ha ribadito che la pace si può ottenere soltanto con la sconfitta totale della Russia: «Nessun’altra nazione vuole la pace più dell’Ucraina. Ma la pace ad ogni costo è un’illusione. Il popolo ucraino accetterà la pace solo se garantirà la cessazione completa dell’aggressione russa, il completo ritiro delle truppe russe dal territorio ucraino e il ripristino dell’integrità territoriale del nostro stato all’interno dei confini riconosciuti a livello internazionale». Gli Ucraini, quando si riferiscono ai confini “riconosciuti a livello internazionale”, non nascondo l’ambizione di volersi riprendere la Crimea, che dal 2014 è una Repubblica autonoma inserita nella Federazione russa. Al punto che il 2 aprile l’Ucraina ha rivelato un piano in 12 punti per gestire la Crimea dopo averla liberata dall’invasione russa, lasciando trapelare che vi saranno durissime purghe e discriminazioni per i filorussi. D’altro canto è impossibile che la Russia accetti di sedersi ad un tavolo negoziale fondato sul presupposto della sua sconfitta e disgregazione.
In questo contesto è importante che il piano cinese metta al primo punto la necessità di rispettare la sovranità di tutti i paesi e il diritto internazionale universalmente riconosciuto, compresi gli scopi e i principi della Carta delle Nazioni Unite. Partendo da questo presupposto, il piano cinese mette in discussione l’occupazione militare russa di una parte dei territori dell’Ucraina, senza umiliare la Russia, e apre la strada a un negoziato per smantellare l’annessione bellica da parte della Russia delle Regioni di Donetsk, di Lugansk, Zaporizhzhia, e Kerson. Opportunamente il piano cinese non adotta la formula dei “confini internazionalmente riconosciuti” e quindi toglie dagli oggetti del negoziato lo status della Crimea, che si è distaccata dalla Ucraina nove anni fa sulla base di un atto di autodeterminazione del suo popolo. Altrettanto importante è il secondo punto che chiede a tutti gli attori internazionali di abbandonare la mentalità della guerra fredda. Come il conflitto è nato da un indurimento del confronto militare fra i due blocchi (l’“abbaiare della NATO” ai confini della Russia) ed è proseguito alimentato dalla volontà di USA e NATO di “punire” la Russia, così l’uscita dal conflitto ha bisogno che sia abbandonata la logica, fin qui portata avanti dalla NATO (sotto la spinta di USA e GB), di rafforzare la propria sicurezza nella più assoluta indifferenza delle esigenze di sicurezza dell’altro blocco politico militare. Ristabilire la pace, comporta la necessità di creare in Europa un clima di sicurezza collettiva, che si può raggiungere soltanto attraverso il disarmo reciproco e concordato, non attraverso la corsa agli armamenti. Così inquadrati i capisaldi per orientare un negoziato di pace, il piano cinese mette al terzo punto (ma in realtà primo in termini di importanza) l’esigenza che le parti giungano rapidamente a un cessate il fuoco globale, osservando che: «il conflitto e la guerra non giovano a nessuno». Può sembrare una banalità, ma è una verità così elementare che è impossibile dimostrare il contrario ed è assurdo che sia bandita dalle Cancellerie dei principali paesi occidentali.
Gli altri punti del piano di pace cinese sono direttamente conseguenti dei primi tre e dell’impostazione originaria che mette al centro il rispetto del diritto internazionale ed il ruolo delle Nazioni Unite. Occorre (4) riprendere i colloqui di pace (dialogo e negoziazione sono l’unica soluzione praticabile alla crisi ucraina); (5) risolvere la crisi umanitaria; (6) operare per la protezione dei civili e dei prigionieri di guerra; (7) mantenere sicure le centrali nucleari; (8) operare per la riduzione dei rischi strategici (contrastare l’uso e la minaccia dell’uso delle armi nucleari); (9) facilitare le esportazioni di grano. Al punto 10 il piano cinese chiede di mettere fine alla sanzioni unilaterali. Qui è evidente il riferimento polemico alle sanzioni unilaterali applicate da UE, GB e USA. Tuttavia questo punto è coerente con la valorizzazione dei fini e principi della Carta delle Nazioni Unite che riserva solo al Consiglio di Sicurezza la facoltà di applicare misure coercitive, non implicanti l’impiego della forza (art. 41). In ogni caso è evidente che il ritiro delle sanzioni deve andare di pari passo con i progressi del negoziato di pace, altrimenti le sanzioni diventerebbero uno strumento per proseguire la guerra con altri mezzi.
Infine gli ultimi due punti riguardano il mantenimento della stabilità economica mondiale (11) e la ricostruzione post bellica (12).
Di fronte alla sapienza del piano di pace cinese, balza agli occhi l’insipienza dell’Unione Europea e delle Cancellerie dei principali paesi europei, che hanno sposato la causa della vittoria dell’Ucraina, da perseguire accrescendo all’infinito le forniture militari, senza sentire ragioni. Anche se i militari, che sono più realisti dei politici, ci hanno fatto sapere che la “vittoria” non è a portata di mano.
Il piano cinese, non essendo stato respinto dalla Russia, avrebbe potuto e potrebbe ancora aprire degli spiragli per un negoziato. Di fronte a questa prospettiva gli Stati Uniti sono intervenuti a gamba tesa, ordinando a Zelensky di non accettare il cessate il fuoco. Ancora qualche giorno fa (il 21 marzo) il Segretario di Stato americano Antony Blinken ha ribadito che un cessate il fuoco sull’Ucraina sponsorizzato dalla Cina non può essere accettato poiché farebbe solo il gioco dei russi e andrebbe in direzione opposta all’unica soluzione auspicata da Washington, ovvero una «pace giusta e duratura». In realtà, più che a una pace duratura, gli USA puntano a una guerra duratura. Vogliono prolungare la guerra il più possibile per nuocere alla Russia e per tenere in riga l’Europa. In realtà siamo di nuovo giunti a uno snodo cruciale per le sorti del conflitto e dei popoli che ne sono coinvolti, come avvenne il 5 marzo del 2022 quando (come ci ha rivelato l’ex premier israeliano Naftali Bennett) le parti erano quasi giunte a un accordo, che naufragò per il veto di Biden e Johnson. Questa volta la Russia indirettamente ha fatto sapere di essere disponibile a un cessate il fuoco e ad aprire un percorso negoziale sulla base delle indicazioni del piano cinese. Il Presidente bielorusso Lukashenko, nel corso di un discorso dinanzi al Parlamento di Minsk, il 31 marzo, ha invocato il cessate il fuoco: «Proverò a suggerire di fermare il conflitto in Ucraina prima di ulteriori escalation. Dichiariamo il cessate il fuoco senza condizioni. Se la leadership russa dovesse intravedere i rischi di un collasso, utilizzerà armi terribili. La probabile controffensiva ucraina renderà qualsiasi negoziazione impossibile». Dal tenore di queste dichiarazioni si capisce che il Cremlino ha parlato per bocca del suo alleato/vassallo. Coloro che in Italia e negli altri paesi europei invocano (a parole) delle iniziative diplomatiche per porre fine al conflitto, non dovrebbero lasciarsi sfuggire questa finestra di opportunità prima che venga chiusa di nuovo e dovrebbero ribellarsi al veto di Biden sul cessate il fuoco.
La programmata controffensiva ucraina sarebbe un disastro di per sé perché provocherebbe la morte di decine o centinaia di migliaia di giovani ucraini e russi, ma, se dovesse avere successo, il disastro sarebbe ancora maggiore perché spingerebbe la Russia a porre mano al grilletto atomico. Il prosieguo della guerra crea solo delle alternative infernali. È assurdo che le classi dirigenti europee non se ne rendano conto.
“…lo status della Crimea, che si è distaccata dalla Ucraina nove anni fa sulla base di un atto di autodeterminazione del suo popolo…” Non è una affermazione tendenziosa, se non si chiarisce immediatamente che l’invasione militare della Crimea da parte della Russia precede e ha condotto forzatamente alla cosidetta “autodeterminazione”? È per questo motivo che la maggior parte delle nazioni ritiene illegale l’annessione e l’Ucrain rivendica il ritorno ai confini pre-2014.
https://kyivindependent.com/russias-annexation-of-crimea/
Oggi si dice agli Ucraini di rinunciare alle loro pretese per paura della minaccia atomica, che chiamiamo “pace”; domani lo diremo alla Moldavia o alla Lituania? Dove ci si deve fermare per scongiurare la paura?
La penisola di Crimea fa parte della Russia da oltre 200 anni, nel 1954 Kruscev la “donò” all’Ucraina, ma si trattava di una mera unificazione amministrativa poiché l’Ucraina continuava a far parte dell’URSS. Nel 2014, dopo il traumatico cambio del regime politico a Kiev, si verificò un’ondata di terrore ai danni della popolazione russofona. In questo contesto il Consiglio Supremo della Repubblica di Crimea votò all’unanimità la dichiarazione d’indipendenza dall’Ucraina e chiese l’annessione alla Russia. Il 16 marzo del 2014 un referendum popolare approvò l’annessione alla Russia con il 96,77% di voti favorevoli, con la partecipazione dell’83,1% degli aventi diritto al voto. L’Ucraina non accettò l’annessione della Repubblica di Crimea alla Federazione russa. Anche l’Unione Europea rifiutò di riconoscere l’annessione ed applicò delle sanzioni commerciali alla Russia. Per la Crimea si verificò, a parti invertite, lo stesso processo che aveva portato all’indipendenza del Kossovo, che la NATO distaccò dalla Jugoslavia a seguito di un’azione di bombardamento durata 78 giorni. Quando il Kosovo, ormai separato di fatto, votò la propria indipendenza dalla Serbia il 17 febbraio 2008, quest’ultima dichiarò immediatamente di non riconoscerla. L’indipendenza del Kosovo è stata riconosciuta soltanto da una metà degli Stati membri dell’ONU, mentre l’altra metà non l’ha riconosciuta. Attualmente esiste una controversia internazionale sullo status del Kosovo, così come esiste una controversia internazionale sullo status della Repubblica di Crimea. In entrambe queste regioni la popolazione ha votato per il distacco dallo Stato d’origine.
Sia per il Kosovo che per la Crimea si è consolidata una situazione di fatto che vede queste due entità indipendenti dallo Stato da cui si sono distaccate. Se la Serbia decidesse di invadere il Kosovo per annullarne l’indipendenza, compirebbe un’aggressione, ai sensi della Carta dell’ONU. La stessa situazione si verificherebbe se l’Ucraina cercasse di riprendere il controllo della Crimea manu militari. Con la differenza che la Crimea è una Repubblica autonoma inserita nella Federazione russa, per cui la sua “restituzione” all’Ucraina comporterebbe lo smembramento della Federazione russa.
Un’azione di forza per staccare la Crimea dalla Federazione russa, oltre ad essere inammissibile sul piano del diritto internazionale renderebbe la pace impossibile perchè la Russia, se non altro per ragioni strategiche (visto che in Crimea ha base la sua flotta del Mediterraneo), mai potrebbe rinunciare alla Crimea, se non a prezzo di una completa disfatta sul piano militare, difficile da ipotizzare nei confronti di una potenza che dispone di 6.000 testate nucleari. Quanto sangue si deve ancora versare per consentire all’Ucraina di “vincere” la guerra con la Russia e risolvere tutte le controversie in corso?