In una notte senza luna si sono levati in volo gli elicotteri e hanno accecato i radar della difesa antiaerea con missili intelligenti. Subito dopo si sono levati in volo i bombardieri e si è scatenato l’inferno. È iniziato così il primo massacro bellico organizzato dopo la caduta del muro di Berlino. Se ci voltiamo indietro e ripensiamo alla seconda metà del Novecento, è all’inizio della guerra del Golfo (16 gennaio 1991) che bisogna far risalire la svolta nella storia che ci ha portato alle asperità e ai drammi del tempo presente.
Per comprenderne il significato profondo di svolta nelle relazioni internazionali bisogna recuperare il clima che si era determinato con la fine della guerra fredda. Il crollo del muro di Berlino fu lo sbocco di un processo di distensione dovuto allo straordinario processo di rinnovamento delle relazioni internazionali introdotto dalla perestroika, quando l’Unione Sovietica guidata da Gorbaciov depose le armi del confronto militare facendo franare la reciprocità violenta dell’equilibrio del terrore e restituendo la libertà di autodeterminazione ai popoli che teneva assoggettati al suo controllo. Il crollo del muro fu vissuto in tutto il mondo come l’epifenomeno che annunciava la fine di un’era, quella della guerra fredda che aveva ingessato l’ordine pubblico mondiale.
In quell’epoca furono stipulati accordi sul disarmo impensabili fino a qualche anno prima, furono delegittimate le alleanze militari contrapposte, fino al punto che si arrivò allo scioglimento del Patto di Varsavia. Si svuotavano gli arsenali, si riducevano in tutto il mondo le spese militari e i popoli confidavano di ricevere i dividendi della pace ristabilita. In questa breve stagione l’ONU, finalmente scongelata, cominciò a svolgere efficacemente il ruolo per il quale era stata istituita e riuscì a risolvere alcune delle più incancrenite situazioni di conflitto (come quelle della Namibia, della Cambogia, del Salvador) e il suo Segretario Generale, Boutros Ghali, concepì un’ambiziosa Agenda per la Pace. In altre parole si respirava un clima di euforia che vedeva l’umanità finalmente sottratta al ricatto della violenza bellica e incamminata lungo quel binario, prefigurato dalla Carta dell’ONU, che portava alla pace attraverso il diritto.
Questo scenario è stato brutalmente strappato dagli architetti dell’ordine mondiale che hanno imposto una svolta nella storia.
Nei circoli occidentali la fine della guerra fredda venne interpretata come una vittoria e il ritiro dell’Unione sovietica dalla competizione militare come il frutto di una sconfitta determinata dalla forza delle armi dell’Occidente. La lezione che gli architetti dell’ordine mondiale trassero dagli eventi del 1989 fu che dal mondo bipolare si potesse passare all’avvento di un mondo monopolare in cui un’unica superpotenza avrebbe garantito la pace e l’ordine pubblico internazionale.
L’occasione per imporre un cambiamento di rotta nelle relazioni internazionali fu offerta dal gioco d’azzardo di una potenza regionale in crisi, l’Iraq di Saddam Hussein, che il 2 agosto del 1990, con un blitz, occupò il Kuwait e si impadronì dei suoi pozzi di petrolio. Quello stesso giorno il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, con la risoluzione 660, condannò l’invasione del Kuwait, esigendo il ritiro immediato e incondizionato dell’esercito iracheno. Il Consiglio di Sicurezza, con la risoluzione 661 del 6 agosto, impose un durissimo embargo all’Iraq e, con la risoluzione 665 del 25 agosto, autorizzò l’uso di forze navali nel Golfo persico per monitorare il rispetto dell’embargo. Per gli Stati Uniti, fu l’occasione storica per preconizzare l’avvento di quello che George Bush definì «un nuovo ordine internazionale» che avrebbe contrassegnato il secolo americano.
Gli Stati Uniti radunarono nel Golfo una sorta di “invincibile armata” e ostacolarono ogni mediazione che potesse portare al ritiro pacifico dell’esercito iracheno dal Kuwait. Tuttavia nel 1990 l’opinione pubblica mondiale ancora non riusciva a concepire il ricorso alla violenza bellica come strumento ordinario della politica. Per questo occorreva rivestirla di un manto di legalità. Il Consiglio di Sicurezza sciaguratamente si prestò a fornire questo mantello. Con la risoluzione 678 del 29 novembre, autorizzò ambiguamente la coalizione americana a scatenare la guerra. Insomma gli Stati Uniti utilizzarono l’ONU come un negozio di abbigliamento giuridico e la loro iniziativa militare come una sanguinosa campagna di marketing della guerra. Una volta rotto il tabù, non ci fu più bisogno di indossare le penne dell’ONU. Con l’aggressione della NATO alla ex Jugoslavia nel 1999 il Novecento si è chiuso com’era iniziato, con il ricorso alla guerra libero da ogni infingimento legale.
Mi pare un’analisi equilibrata e molto lucida, anche dal punto di vista psicologico di massa. L’autore ha ben interpretato lo stato d’animo diffusissimo fra tutti coloro che più o meno giovani, si sentirono, in quei frangenti alleggeriti dalla paura strisciante che la guerra fredda potesse diventare guerra “atomica” e vissero l’illusione che il socialismo avrebbe potuto essere corretto. E che la più grande potenza democratica, avendo appreso dall’umiliazione della sconfitta in Vietnam, la lezione della non ingerenza violenta nelle questioni interne di uno stato sovraMa mentre i popoli credevano in un mondo bipolare disarmato, gli Stati Uniti si consideravano i vincitori della guerra fredda e perciò intitolati a fare prevalere la loro forza militare,tecnologica e politica sul resto delmondo;alla luce dell’attuale realtà politica mondiale, pare però che tale supremazia stia per essere rimessa in discussione.