Il senso del 25 aprile

Ogni anno celebriamo il 25 aprile; ogni anno si alza la bandiera della Resistenza; ogni anno tutto sembra rituale, ma ogni anno è diverso. Ogni anno ci troviamo di fronte allo stesso dilemma: è una festa rievocativa per fare memoria di un passato ormai passato che non ha più nulla da dire, oppure dobbiamo guardare al passato per capire l’oggi e cogliere un messaggio per il nostro futuro?

E’ un interrogativo che è emerso già pochi anni dopo la liberazione. In un discorso tenuto al teatro lirico di Milano, il 28 febbraio 1954, Piero Calamandrei così affrontava il tema: “In queste celebrazioni che noi facciamo nel decennale della Resistenza, di fatti e di figure di quel tempo, noi ci illudiamo di essere qui, vivi, che celebriamo i morti. E non ci accorgiamo che sono loro, i morti, che ci convocano qui, come dinanzi ad un Tribunale invisibile, a render conto di quello che in questi 10 anni possiamo aver fatto per non essere indegni di loro, noi vivi. In tutte le celebrazioni torna, ripetuta in cento variazioni oratorie, una verità elementare che nelle lettere dei condannati a morte è espressa come una naturale e semplice certezza: che i morti non hanno considerato la loro fine come una conclusione e come un punto d’arrivo, ma piuttosto come un punto di partenza, come una premessa, che doveva segnare ai superstiti il cammino verso l’avvenire (.) Quando pensiamo a loro per giudicarli, ci accorgiamo che son loro che giudicano noi: è la nostra vita che può dare un significato ed una ragione rasserenatrice e consolante alla loro morte; e dipende da noi farli vivere o farli morire per sempre.”

Se guardiamo al nostro tempo con gli occhi di questo Tribunale invisibile, evocato da Calamandrei, cosa penseranno di noi quelli che hanno sacrificato la  loro vita per testimoniare, con la morte, la fede nella libertà, nella fratellanza, nella giustizia e nella pace? Per consegnare alle generazioni future il sogno di una umanità liberata dal ricatto della violenza, riconciliata nel riconoscimento della uguale dignità di tutti i membri della famiglia umana, unificata nella dimensione della speranza?

Il quadro storico, confermato dalle elezioni del 4 marzo, è quello di un’Italia rancorosa, in cui si sono sfaldati i legami sociali, la solidarietà di classe e la solidarietà fra le varie generazioni, in cui tutti lottano contro tutti e coloro che versano in condizioni di sofferenza sociale identificano come loro nemici quelli che stanno ancora più in basso.  Una società in cui, a fronte di una tentata strage razziale in una tranquilla cittadina dell’Adriatico, attuata da un fanatico inneggiante a Mussolini, non vi è stata una limpida reazione delle principali forze politiche, timorose di una condanna troppo netta dei rigurgiti di razzismo e di fascismo che avvelenano la vita pubblica, con il paradosso che il partito in cui militava l’attentatore in quella città è passato dallo 0,6% al 21%.

Non è un caso che in questo 2018 emergano diffusi sentimenti di fastidio per le celebrazioni del 25 aprile. Un caso per tutti: quello dell’amministrazione comunale di Todi che ha ritirato il patrocinio all’Anpi per la manifestazione del 25 aprile, ripudiata perché “divisiva”. E non è un caso che il leader della forza politica in cui militava l’attentatore di Macerata non abbia partecipato ad alcuna celebrazione del 25 aprile. Non c’è da stupirsi se i tifosi italiani di Netanyahu non abbiamo partecipato alla manifestazione unitaria promossa dall’ANPI a Roma, perché disturbati dalla presenza delle bandiere di un popolo che lotta ancora per la sua liberazione.

Per quanto sconcertanti, questi fatti testimoniano che il messaggio di liberazione della Resistenza, per quanto “addomesticato” dalla ritualità delle celebrazioni ufficiali, è ancora vivo, morde nelle contraddizioni del presente  e ci fornisce gli strumenti – sol che vogliamo utilizzarli –  per rovesciare la barbarie di ritorno in cui siamo immersi.

Non potrebbero essere più attuali le parole di Calamandrei: “In questo clima avvelenato di scandali giudiziari e di evasioni fiscali, di dissolutezze e di corruzioni, di persecuzioni della miseria e di indulgenti silenzi per gli avventurieri di alto bordo, in questa atmosfera di putrefazione che accoglie i giovani appena si affacciano sulla vita, apriamo le finestre: e i giovani respirino l’aria pura delle montagne e risentano ancora i canti dell’epopea partigiana”  

Autore: Domenico Gallo

Nato ad Avellino l'1/1/1952, nel giugno del 1974 ha conseguito la laurea in Giurisprudenza all'Università di Napoli. Entrato in magistratura nel 1977, ha prestato servizio presso la Pretura di Milano, il Tribunale di Sant’Angelo dei Lombardi, la Pretura di Pescia e quella di Pistoia. Eletto Senatore nel 1994, ha svolto le funzioni di Segretario della Commissione Difesa nell'arco della XII legislatura, interessandosi anche di affari esteri, in particolare, del conflitto nella ex Jugoslavia. Al termine della legislatura, nel 1996 è rientrato in magistratura, assumendo le funzioni di magistrato civile presso il Tribunale di Roma. Dal 2007 al dicembre 2021 è stato in servizio presso la Corte di Cassazione con funzioni di Consigliere e poi di Presidente di Sezione. E’ stato attivo nel Comitato per il No alla riforma costituzionale Boschi/Renzi. Collabora con quotidiani e riviste ed è autore o coautore di alcuni libri, fra i quali Millenovecentonovantacinque – Cronache da Palazzo Madama ed oltre (Edizioni Associate, 1999), Salviamo la Costituzione (Chimienti, 2006), La dittatura della maggioranza (Chimienti, 2008), Da Sudditi a cittadini – il percorso della democrazia (Edizioni Gruppo Abele, 2013), 26 Madonne nere (Edizioni Delta Tre, 2019), il Mondo che verrà (edizioni Delta Tre, 2022)

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