Nella “dichiarazione di guerra” consegnata alla stampa dall’allora segretario generale della NATO, Solana, la sera del 23 marzo 1999, l’azione militare della NATO veniva presentata come un intervento guidato dalla necessità di porre fine ad una catastrofe umanitaria e volto a far cessare le violenze che affliggevano la popolazione del Kosovo.
Sulla falsariga di questa menzogna si è sviluppato la campagna politica volta a far accettare la guerra all’opinione pubblica.
A quasi un anno di distanza da quell’evento è ormai possibile tracciare un bilancio degli esiti funesti di quell’avventura.
Dopo i disastri umani, sociali, politici economici e ambientali, provocati dalla guerra, dopo la disastrosa operazione di pulizia etnica operata dai Serbi, nel tentativo illusorio di mettere fine a loro modo al conflitto, dopo la pulizia etnica al contrario, ai danni della popolazione serba e rom, posta in essere dalle bande dell’UCK penetrate nel Kosovo al seguito della KFOR, è fin troppo evidente che tutti (proprio tutti) gli obiettivi umanitari dichiarati della guerra sono falliti, ivi compreso l’obiettivo politico di forzare la Jugoslavia a firmare il trattato di Rambuillet.
In realtà, quali che fossero le sue reali finalità, con il bombardamento della Jugoslavia. La NATO ha intrapreso un’azione politico militare che staccando il Kosovo dalla Serbia, giustifica la creazione di uno Stato etnico. Di fatto, il compromesso finale che ha posto termine all’azione militare, determinando lo smantellamento della sovranità della Jugoslavia e comportando un’inevitabile fuoriuscita di gran parte delle popolazione non albanese ha provocato una vera e propria separazione del Kosovo dalla Jugoslavia e la creazione di un’entità – non ancora statale – su base etnica. Sebbene la Risoluzione n. 1244 (10/6/99) del Consiglio di Sicurezza abbia in via di principio riconosciuto l’integrità territoriale della Repubblica federale Jugoslava, la soluzione adottata è quella di consegnare il Kosovo ad un’amministrazione civile dell’ONU (UNMIK), garantita dalla missione militare della NATO (Kfor). In sostanza le Nazioni Unite hanno stabilito per il Kosovo un regime simile a quello dei mandati che la Società delle Nazioni affidò a Francia ed Inghilterra all’indomani della 1^ guerra mondiale. In questo modo la questione della sovranità (sul Kosovo o del Kosovo) e rimasta congelata a tempo indeterminato. Questa soluzione non può durare in eterno ed in assenza di una svolta della politica dell’Europa nei Balcani, porta inevitabilmente alla nascita di un miserabile statarello etnico dominato dall’UCK, con effetti destabilizzanti per tutta l’area. Se volesse opporsi a questa deriva la Kfor ben presto si troverebbe nella stessa posizione insostenibile in cui si è trovata l’amministrazione britannica in Palestina nel 1947/48, a fronte dell’insorgenza dell’Irgoun e dell’Hagana
In sostanza la NATO ha vinto la guerra, ma adesso si trova impantanata nel Kosovo (come in Bosnia), condannata ad un protettorato dal quale non sa come uscire.
Anche il modo con cui è stata condotta la guerra deve far riflettere.
In realtà non si è trattato di una guerra vera e propria in quanto l’azione militare della NATO non ha puntato alla distruzione delle forze militari avversarie, né ha realmente contrastato le violenta repressione operata dalle forze di sicurezza serbe nel Kosovo
L’elenco degli obiettivi colpiti dall’aviazione della NATO (scuole, ospedali, alberghi, stazioni termali e sciistiche, industrie meccaniche, chimiche, agricole, impianti petroliferi, acquedotti, ponti, centrali elettriche, strutture di telecomunicazione, etc.) dimostra che l’azione militare non aveva per oggetto il Kosovo, ma la Jugoslavia, non aveva per oggetto un determinato regime politico, ma un intero popolo. I risultati dell’azione militare si traducono in una punizione collettiva ai danni del popolo Jugoslavo, che colpisce anche le generazioni future.
Tutti gli obiettivi sono stati selezionati con cura e non è un caso se gli investimenti stranieri (Mercedes, Telecom, etc.) siano stati risparmiati dalle bombe.
La punizione collettiva del popolo jugoslavo costituisce il prezzo, il prodotto ed il profitto della guerra. Un intero popolo è stato duramente punito perché non aveva voluto piegarsi al diktat di un gruppo di potenze, sotto la leadership degli Stati Uniti, che si sono autoattribuite il potere di guidare le altre nazioni.
Seppure in un diverso contesto, con la Jugoslavia è stato messo in piedi lo stesso meccanismo già sperimentato con l’Iraq, della punizione collettiva. Un meccanismo essenziale per rendere credibile la “coercive diplomacy” che costituisce l’ossatura della politica di potenza. Leggendo in filigrana le vicende politiche e militari che hanno portato a quest’esito, è evidente che con la guerra nei Balcani si è realizzata una sperimentazione in vivo del nuovo concetto strategico (che la NATO ha proclamato ufficialmente a Washington il 24 aprile) e del pensiero strategico che, a partire dal 1990 orienta la politica degli Stati Uniti, nel quale rientra anche il rilancio della guerra fredda, attraverso la sfida militare alla Russia e alla Cina (non a caso è stata bombardata l’ambasciata cinese a Belgrado). Nello stesso tempo le corso del conflitto sono stati sperimentati i nuovi sistemi d’arma per la guerra fredda, per es. il superbombardiere strategico B2 Spirit.
Non è possibile il ristabilimento di un assetto pacifico stabile e duraturo nei Balcani, isolando le singole questioni aperte, soprattutto il futuro della Bosnia e quello del Kosovo. Il protettorato ONU/NATO sulla Bosnia e sul Kosovo non può durare all’infinito. D’altro canto non esiste una soluzione militare dell’instabilità dei Balcani, che l’intervento della NATO ha aggravato, innescando – fra l’altro – un processo di secessione del Montenegro.. I problemi della Bosnia e del Kosovo (oltre che del Montenegro e delle altre regioni) non possono essere risolti se non nel quadro di una politica che si faccia carico del problema della stabilità attraverso un nuovo patto che assicuri la convivenza di tutti i popoli della regione in un quadro istituzionale che favorisca la ricostruzione del tessuto civile, economico e sociale.
Il Patto di Stabilità, l’organismo creato a Colonia il 10 giugno 1999, per la ricostruzione dei Balcani, lanciato dalla conferenza di Sarajevo del 29 luglio, rischia di rivelarsi tragicamente inconcludente se non si sciolgono alcuni nodi politici fondamentali.
Il primo nodo è che non possono farsi discriminazioni fra i popoli balcanici che devono essere chiamati tutti ad un percorso di riconciliazione e di integrazione con l’Europa. Escludere la Jugoslavia dagli aiuti alla ricostruzione e quindi dal percorso di riconciliazione significa perpetrare il conflitto e rendere impossibile la ricostruzione della pace. Identificando un popolo come nemico, si legittima quel processo politico che ha fomentato lo scontro fra i diversi nazionalismi e si rende il conflitto irreversibile, si edifica un nuovo muro, destinato a lacerare l’Europa, come il muro di Berlino durante la guerra fredda.
Le scelte di questo dopoguerra sono, pertanto, altrettanto cruciali quanto le scelte che hanno portato all’intervento armato della NATO. E’ inaccettabile che – dopo il confronto politico sulla guerra – non si sviluppi un approfondito confronto politico sulle scelte da compiere per la ricostruzione della pace.
La scelta fondamentale da compiere – sulla qual è indispensabile affrontare un chiarimento e uno scontro politico – è che si deve porre termine alla punizione collettiva del popolo jugoslavo. E’ scandaloso che l’Unione Europea, non solo abbia escluso la Jugoslavia dagli aiuti alla ricostruzione, ma abbia messo in cantiere un complesso di sanzioni, dal divieto delle forniture di petrolio al congelamento dei fondi detenuti all’estero dal Governo e dalle imprese jugoslave, al divieto di ogni investimento, che sono state mantenute e persino rafforzate dopo la fine della guerra. Queste sanzioni stanno strangolando un paese che è uscito fortemente provato dai bombardamenti. Da strumenti di prevenzione della guerra, si sono trasformate in strumenti di punizione collettiva dei vinti, proprio come è avvenuto in Iraq. Questo scandalo non può essere più tollerato, non solo perché bisogna impedire che coloro che hanno scatenato la guerra conseguano l’obiettivo ed il profitto della guerra stessa, ma soprattutto perché l’esclusione della Jugoslavia condanna i Balcani all’instabilità e l’Europa alla subordinazione nei confronti degli USA.
La seconda scelta da compiere e che l’Europa deve proporre un percorso di integrazione, nel suo seno, di tutti i popoli dei Balcani e proporsi essa stessa come paradigma per fondare una nuova convivenza.
Se la guerra dei Balcani rappresenta una sperimentazione dal vivo del nuovo ruolo che la NATO ha concepito per se stessa, la nuova dottrina strategica, che va sotto il nome di “The Alliance strategic concept”, adottata dal Consiglio Atlantico del cinquantenario a Washington (il 23 e 24 aprile 1999) rappresenta la formalizzazione di questo nuovo ruolo, il certificato di nascita della nuova NATO e costituisce il momento finale di una riconsiderazione dei compiti della natura e dell’area di azione della NATO, iniziata dal Consiglio atlantico di Roma del novembre 1991.
Questa trasformazione dei compiti e della natura dell’Alleanza, da organizzazione di cooperazione internazionale per la difesa collettiva in organizzazione regionale di Sicurezza, al di sopra e al di fuori del quadro di legalità dell’ONU, è avvenuta attraverso una serie di decisioni assunte dal Consiglio Atlantico e dichiarazioni dei capi di Stato e di Governo al di fuori delle procedure costituzionali che impongono che modificazioni di tanta rilevanza avvengano quanto meno con le procedure costituzionali per la modificazione dei trattati. I parlamenti sono stati tagliati fuori, e quindi è stato sterilizzato ogni dibattito politico al riguardo, proprio nel momento in cui il ruolo politico della NATO cresceva fino al punto da assumere decisioni cruciali per la guerra o per la pace. E’ un dato di fatto che il Consiglio Atlantico ha dato il via libera all’attacco aereo della NATO senza che nessun parlamento avesse avuto l’opportunità di discutere se una scelta così impegnativa dovesse essere compiuta. I Parlamenti sono stati consultati dopo, quando i bombardamenti erano già iniziati e si era compiuto un evento ormai irreversibile. Anche la consultazione tardiva e le prese di posizione del Parlamento italiano sono state vissute come una “debolezza istituzionale” dell’Italia, paese handicappato in quanto il Governo italiano non avrebbe poteri adeguati per gestire una guerra.
Quest’impostazione è inaccettabile. Le scelte fondamentali di politica estera, come quelle che riguardano la pace e la guerra, non possono essere sottratte al circuito della democrazia. Anche nella politica estera la sovranità appartiene al popolo, le scelte non possono essere confiscate dagli esecutivi o peggio ancora da ambigui organi supernazionali privi di legittimazione democratica. Bisogna battersi, pertanto, perché i nuovi documenti della NATO siano portati all’esame del Parlamento e perché ne sia verificata la compatibilità con le leggi esistenti, compreso il trattato istitutivo della NATO. Di fronte al vuoto attuale, ritorna d’attualità l’esigenza di regolamentare le forme e le procedure per la partecipazione dell’Italia ad azioni militari all’estero, nel quadro dei principi costituzionali. Sotto il profilo politico occorre battersi perché si fermi il processo di allargamento a Est della NATO in quanto tale processo costituisce obiettivamente una sfida ed una provocazione per la Russia e apre la strada ad una rinascita della guerra fredda, sotto nuove forme, non più su basi ideologiche ma su basi nazionalistiche.
In questo contesto si pone il problema della revisione dello strumento militare, processo che va avanti da anni, secondo le linee guida di un modello di difesa (elaborato nel 1991) mai sottoposto ad alcuna verifica politica o parlamentare, però progressivamente attuato. Questo processo di attuazione del Nuovo Modello di Difesa ha fatto un balzo in avanti ed un salto di qualità con l’annunzio del prossimo tramonto della leva e dell’avvento di un esercito completamente professionale.
Più che di un illusorio modello di difesa fondato su una minacciosa capacità di proiezione di potenza, e per questo strutturalmente vincolato alla macchina militare americana, l’Italia ha bisogno di un modello di politica estera basato sulla cooperazione pacifica e, sull’interdipendenza nella costruzione della sicurezza reciproca. Per questo bisogna prevedere una capacità di intervento, realmente umanitario (e quindi non bellico) per le emergenze, l’interposizione e il raffreddamento dei conflitti. Per questo è essenziale dotarsi di corpi di intervento non armati (i c.d. caschi bianchi), forniti dal servizio civile, che – all’occorrenza – collaborino ed interagiscano con i corpi armati nelle operazioni di peacekeeping o di peacebuilding che si renderanno necessarie per risolvere, prevenire e pacificare i conflitti.