Proposta di lavoro sulle questioni istituzionali

Nel corso dell’attuale legislatura il disegno di grande riforma istituzionale, animato dalla spinta del maggioritario e dalle pulsioni secessionistiche della Lega, ha dispiegato la sua massima potenza, arrivando a concepire, attraverso la Bicamerale l’ambizione di riscrivere ex novo la Costituzione e attraverso il referendum elettorale, proposto per due volte di seguito, la pretesa di cancellare il sistema dei partiti per giungere ad una democrazia ridotta basata su un artificiale partito unico. Con questa strategia di grande riforma si è dimostrato convergente il disegno dei radicali di demolizione dei diritti sociali, della giustizia e dei presidi dello Stato sociale attraverso i famigerati 20 referendum. Se questi orientamenti, espressioni di esigenze politiche contraddittorie e non tutte negative, che hanno percorso in senso trasversale tutti e due gli schieramenti politici, si fossero saldati fra di loro, la democrazia italiana avrebbe conosciuto una vera e propria frattura storica che avrebbe comportato una radicale immutazione della forma di Governo, della forma di Stato, degli istituti della rappresentanza e della partecipazione popolare, e avrebbe fatto definitivamente tramontare quel progetto di emancipazione e promozione sociale che i Costituenti hanno consegnato alle future generazioni. Non è un caso, però, se nel momento in cui ha dispiegato la sua massima potenza questo disegno di grande riforma ha svelato la sua massima impotenza e la sua intrinseca debolezza, fino a giungere, attraverso il referendum del 21 maggio 2000, ad una drastica e radicale sconfessione popolare.

Il fallimento del tentativo di riforma dell’ordinamento, attraverso l’istituzione con legge costituzionale, di una commissione Bicamerale ad hoc, in realtà è stato il frutto dell’eccesso di ambizioni che lo animava. Aver concepito il disegno di una riscrittura completa della seconda parte della Costituzione, con riflessi inevitabili anche sulla prima parte, aver concepito di scrivere una nuova costituzione con gli eredi dei fascisti per eliminare la frattura storica dell’antifascismo, e delineare un nuovo volto delle istituzioni più coerente con la filosofia oligarchica del maggioritario, ha creato un coacervo di contraddizioni insuperabili. Il progetto di riforma dell’ordinamento prodotto dalla Commissione bicamerale non è abortito per una impuntata di Berlusconi, è abortito perché ha prodotto un risultato troppo contraddittorio per poter reggere: una doppia legittimazione popolare dei due Presidenti, con forte personalizzazione del potere dell’uno e dell’altro; un Capo di Stato, fortemente connotato politicamente dall’elezione popolare diretta, in cui convivevano ambiguamente poteri di garanzia e poteri di guida del Governo, senza responsabilità né penale, né politica; un Governo formalmente parlamentare ma con un Parlamento sotto costante minaccia di scioglimento e espropriato dall’alto e dal basso di gran parte delle sue competenze; una organizzazione della giurisdizione in cui si componevano ambiguamente l’esigenza della indipendenza della magistratura e quella opposta del suo controllo politico. Il fallimento della Bicamerale ha dimostrato la capacità di resistenza della costituzione vigente e la sua duttilità, che ha consentito gli incisivi cambiamenti che si sono verificati negli ultimi anni nel sistema politico, e ha costretto a ridurre le intenzioni revisioniste spostando il confronto da un progetto generale a proposte su punti particolari.

Ed è proprio su questo terreno che ha ripreso vigore la spinta verso una riforma nel senso del federalismo. Bloccata dal fallimento della Bicamerale, la spinta verso la riforma ha abbandonato progetti più ambiziosi e si è concentrata sul sistema di Governo delle Regioni riuscendo ad ottenere, con la legge costituzionale n.1 del novembre 1999 una significativa modifica delle disposizioni costituzionali in tema di forma del Governo regionale e di autonomia statutaria delle Regioni. L’aspirazione al Presidenzialismo che aveva dominato l’intero arco dei lavori della Bicamerale, di fronte alla paralisi del progetto di grande riforma, alla fine ha trovato sfogo nel sistema di Governo delle Regioni. La riforma ha introdotto una sorta di “Presidenzialismo” delle Regioni, prevedendo l’elezione popolare e diretta del Presidente della Giunta e, quel che è peggio, introducendo la clausola della dissolvenza del Consiglio regionale che vota la sfiducia al Presidente nonché in ogni altro caso (morte, impedimento permanente o dimissioni) in cui il Presidente non possa esercitare più le sue funzioni.
In questo modo il Consiglio regionale è stato trasformato in una sorta di “Consiglio della corona”, che sta in piedi fin che sta in piedi il Principe e cade assieme a questi.
Questa novità non può avere che un effetto di ulteriore personalizzazione della vita politica e mortificazione della rappresentanza. Inoltre con la riforma vengono Cancellati gli effetti di stabilizzazione del Governo regionale conseguenti alla riforma elettorale del 1995, che aveva sapientemente coniugato la tutela del pluralismo politico con l’esigenza della stabilità degli esecutivi. Infatti la stabilità dei Consiglio e degli esecutivi regionali è ormai stata inscindibilmente agganciata alle vicende ed ai casi personali di una sola persona.
Non è questa la strada maestra per promuovere le autonomie territoriali e rafforzare la capacità di azione dei governi locali sul terreno economico e sociale. La riforma della forma di Governo regionale non ha prodotto come risultato la promozione della autonomie locali su base regionale, semplicemente ha fatto emergere l’organo posto al vertice. Non a caso ai nuovi presidenti delle Giunte è stata (arbitrariamente) attribuita la qualifica di “Governatori”.
Al di là della pretestuosità delle polemiche antigovernative sollevate recentemente dai “Governatori” del Polo, i primi passi del percorso di attuazione della riforma rendono evidente il rischio di una degenerazione verso un conflitto istituzionale permanente, conseguente a questa eccessiva personalizzazione delle funzioni politiche.
La riforma del governo regionale in realtà si è dimostrata una non riforma e tuttavia, nel corso della legislatura, è stata avviata una riforma molto più incisiva, attraverso la legge Bassanini ed i decreti legislativi che ne sono seguiti. In particolare con il decreto 212/98, è stata avviata una vera e propria rivoluzione che comporterà un enorme trasferimento di competenze amministrative e di risorse finanziarie e umane dalla Amministrazione centrale dello Stato alle Regioni. Tale trasferimento è ancora in itinere in quanto i provvedimenti attuativi dovrebbero essere emanati entro il 31 dicembre 2000. Non si tratterà di una riforma facile da attuare e bisognerà sperimentarne seriamente e per lungo tempo l’efficacia prima di compiere ulteriori passi, che potrebbero rivelarsi avventati.
Il tema dell’autogoverno e delle autonomie locali e del rapporto fra queste ed i poteri dello Stato centrale non può essere oggetto di una soluzione definitiva e valida per ogni tempo. Occorre una sperimentazione ragionata e meditata stando attenti a respingere tutte quelle suggestioni che non hanno altro scopo che quello di rompere la condivisione da parte del popolo italiano di una comune condizione di cittadinanza, senza la quale si rompe la Costituzione e si sfascia la Repubblica.

Intanto con il referendum elettorale del 1999 è stato rilanciato il metodo referendario per decidere sull’assetto politico istituzionale. Il referendum è stato respinto. Ma le forze che lo hanno sostenuto non hanno voluto tenere in alcun conto l’esito del voto, né quale sollecitazione a mettere in discussione il sistema elettorale uninominale riproposto e bocciato, né quale vincolo istituzionale a non ripetere a breve il referendum approvato. Il segnale politico inviato dagli elettori nell’aprile del 1999 non è stato tenuto in alcun conto ed il referendum del 21 maggio 2000 è divenuto, perciò, il banco di prova di una politica che ha cercato di comprimere il pluralismo al massimo, sia usando la clava del maggioritario, sia attraverso i progetti di riforme istituzionali, sia nell’articolazione delle scelte politiche concrete che hanno mortificato le forze politiche custodi di una identità non omologata. L’ambizione del Capo del precedente Governo di presentarsi alle elezioni del 2001 senza partiti, segnala al contempo l’arroganza di questa politica e la sua impotenza a conseguire l’obiettivo. Questo progetto demiurgico di comprimere e triturare le identità politico culturali e di fonderle nella pentola del partito unico è definitivamente saltato con il referendum del 21 maggio 2000.

Il risultato del referendum del 21 maggio rappresenta una pietra miliare nella storia della democrazia italiana anche perché mette definitivamente fine alla strada plebiscitaria, che i radicali (con l’aiuto di Segni e Fini) pervertendo le finalità e gli scopi dell’istituto del referendum, avevano sperimentato per perseguire un vero e proprio disegno di riforma istituzionale fondato sul rovesciamento dei principi costituzionali. Questo disegno aveva concepito la sua massima aggressività proprio nel corso dell’anno appena trascorso con la proposizione dei 20 referendum che aggregavano in progetto politico convergente le questioni sociali, le questioni della giustizia e il sistema elettorale. La Corte Costituzionale, dichiarando inammissibili 8 dei 10 referendum in materia economico sociale promossi dai radicali, ha sventato il tentativo più insidioso, che sia stato mai concepito nella storia della Repubblica, di capovolgere l’intero assetto delle relazioni economico-sociali ordinato secondo i principi di uguaglianza, solidarietà e giustizia a cui è ispirata la Costituzione vigente. In particolare è stato battuto il tentativo di cancellare il complesso degli istituti che tutelano il lavoro umano, frutto di un percorso storico, politico ed economico, che il nuovo pensiero liberista, marcato di fondamentalismo, mostra di disconoscere. Gli elettori hanno dato il colpo di grazia a questo progetto. Non è un caso se il referendum sui licenziamenti è stato battuto due volte, sia perché non è passato il quorum, sia perché i no hanno superato i si.

Tuttavia non era per caso che questo fallito progetto di riforma aggrediva insieme il sistema elettorale e le relazioni sociali. L’esigenza di principi istituzionali e di norme legislative e contrattuali di garanzia del lavoro, di sostegno alla formazione e di protezione sociale, trova la sua corrispondenza in un sistema elettorale che valorizzi la rappresentanza e rilanci la partecipazione politica, con il più vasto impegno collettivo e un’articolazione di proposte e di controlli sociali e culturali.
All’opposto la cancellazione di fondamentali diritti e protezioni sociali come di essenziali regole contrattuali, e il rilancio dell’arbitrio imprenditoriale sulle modalità di impiego e sul lavoro, trovano la loro corrispondenza in un sistema elettorale che si fondi sulla personalizzazione della politica e sul potere degli esecutivi, svuotando le forme collettive di partecipazione e riducendo le formazioni politiche a comitati elettorali. Il carattere propriamente reazionario dei referendum sociali proposti dai radicali, avrebbe determinato, se non bloccati dalla Corte Costituzionale prima e dagli elettori poi, un salto indietro a una condizione politica e sociale pre-giolittiana. Tale impostazione è perfettamente coerente con la spinta politica verso un sistema elettorale maggioritario puro che postula l’uscita dalla scena politica e istituzionale dei partiti in quanto organismi capaci di coinvolgimento collettivo, di stimolo culturale e di rappresentanza sociale.

La replica deve comprendere l’insieme dei problemi. Il sistema elettorale e le normative sociali e contrattuali sono strumenti della democrazia: bisogna riflettere su come si intende lo sviluppo democratico. Il problema decisivo è la partecipazione e bisogna proporsi un sistema elettorale e normative sociali e contrattuali capaci di favorire e promuovere la maggiore partecipazione a tutti i livelli.
I luoghi della partecipazione stanno prima della rappresentanza politica e degli esecutivi: riguardano i rapporti fra le imprese e i lavoratori; fra le imprese e gli utenti; fra la scuola e la società; fra i servizi, la loro gestione, e i finanziatori e utilizzatori, cittadini e utenti; fra le amministrazioni e gli utenti. Questi rapporti possono essere regolati in modo da sostenere e realizzare fondamentali diritti sociali ed esigenze culturali, con normative adeguate a sviluppare la partecipazione di cittadini, lavoratori, utenti. Oppure se ne può rimandare lo svolgimento interamente al mercato, abolendo protezioni sociali e garanzie contrattuali, eliminando norme che sanciscono essenziali diritti sociali, come rivendicano i referendum radicali.
Questo il primo dilemma del confronto, da affrontare su punti anzitutto relativi al rapporto di lavoro e alle protezioni sociali, ma che è più vasto, riguarda tutte le relazioni sociali e culturali alla base della società. I referendum radicali hanno avuto il merito di proporre un problema di sostanza della democrazia, il suo sostanziamento in diritti sociali istituzionalmente garantiti. Il rigetto inappellabile dei referendum deve anche significare la spinta a un nuovo sviluppo di questi diritti, nella concretezza delle attuali condizioni economiche e sociali, cui facciamo riferimento nel documento specifico su queste questioni.
Il secondo dilemma è relativo al modo in cui si esprimono e organizzano le rappresentanze nei rapporti sociali e nella relazione con le istituzioni.

Le rappresentanze devono potere corrispondere e interpretare gli elementi di conflitto che sono presenti nella società e verso le istituzioni. La prova della durezza del problema e della sua importanza è costituita dalle difficoltà e dai limiti politici a normare per legge le rappresentanze dei lavoratori, che emergono nei propositi di delimitarle a parte delle imprese, riducendone l’universalità della rappresentanza e il diritto a costituirla collettivamente; di ridurne l’autorità contrattuale, e quindi il potere rappresentativo; di costituirle solo parzialmente attraverso l’elezione da parte dei lavoratori rappresentati, per mantenere una riserva di designazione alle organizzazioni “esterne”.
Ancora più problematica la questione delle rappresentanze nelle istituzioni. Che si può considerare da due lati: per quale mediazione di giunge a designarle e quale rapporto hanno con gli esecutivi. Premessa l’impossibilità della soluzione della piazza della democrazia diretta nella Grecia antica, la mediazione ha bisogno di strumenti organizzatori.
Ci si può proporre una modalità di designazione e di elezione della rappresentanza che abbia un carattere collettivo, richiami la partecipazione attraverso organismi collettivi con programmi comuni, che come tali vadano al voto: un voto nel quale la persona conta ma non esclusivamente, contribuisce alla identità collettiva e al programma cui partecipa.
Oppure ci si può proporre una mediazione che porti unicamente alla persona, alla designazione del singolo per il voto e poi alla elezione, come rappresentante e anche direttamente come governante. Il maggioritario propone la soluzione della piena personalizzazione della politica, mirando a una rappresentanza interamente risolta nella designazione personale a rappresentante e anche a governante.
La replica da contrapporre concretamente è complessa, perché implica inevitabilmente opzioni tattiche difficili, e tuttavia il chiaro risultato del referendum, ha posto sul tappeto l’esigenza, non più rinviabile di ritornare al sistema proporzionale. Anche a sostegno di opzioni tattiche non evitabili va proposto il valore di questo metodo, come base per esprimere la partecipazione tramite organismi politici collettivi, animati da scelte sociali e culturali comuni gestite all’interno con metodo democratico. Scelta che sottolinea anche il potere delle rappresentanze come base per formare gli esecutivi in alternativa alla designazione diretta.
E’ vero che questo sistema elettorale e soprattutto i partiti di massa sono entrati in una crisi che é complessivamente del sistema politico italiano. Ma altrettanto vero è che da questa crisi non si è usciti né con il sistema elettorale uninominale e maggioritario; né con la trasformazione dei partiti in supporti alle persone, in comitati elettorali, svuotandone il carattere di massa; né con il prevalere della designazione diretta dei governanti già provata a livello di comuni e di province. Il fenomeno emergente è una crisi della partecipazione che ha prodotto la smobilitazione degli elettori, come già avviene ovunque la riduzione della politica alle persone è più consolidata. Proprio la gravità della crisi della politica ed il pericolo di un cambio della maggioranza alle prossime elezioni politiche rende urgente una riforma elettorale che favorisca la partecipazione e valorizzi il pluralismo ricreando, perciò le condizioni perché i partiti possano di nuovo diventare canali di partecipazione popolare alla vicenda politica.

Il confronto politico in atto riguarda anche le questioni della giustizia, sulle quali intervengono pesanti polemiche politiche. Vi si collega il problema della sicurezza, venuto in primo piano negli ultimi tempi, pure in una vera a propria campagna politica e giornalistica.
Le questioni sono reali e vanno viste nel loro legame. Vi sono delle ragioni che motivano le attuali difficoltà della sinistra a considerarle con chiari principi di democrazia e con adeguato realismo. Ne é eloquente dimostrazione una dichiarazione davvero sorprendente di Violante per cui la sicurezza viene prima della giustizia, in altri termini l’azione repressiva prima del diritto. Rimettiamo i piedi sul terreno del primato civile e morale delle garanzie della giustizia e del diritto. Ma guardiamo ad aspetti reali di queste difficoltà della sinistra.
Nel duro confronto politico sulla giustizia, e specificatamente sulla magistratura, la questione decisiva dell’efficienza della macchina della giustizia, della degenerazione burocratica di elementi decisivi del sistema giustizia, é sistematicamente caduta in secondo piano. Eppure tutti i problemi di principio che vengono affrontati trovano il loro condizionamento su questo piano. Emblematicamente se dopo le incriminazioni i processi non vengono celebrati, se la scadenza dei termini é quasi una regola, se i procedimenti civili hanno tempi biblici, è del tutto evidente la ricaduta di questi gravi limiti di efficienza del sistema giustizia sulla questione della sicurezza..
D’altra parte in Italia, come negli altri paesi sviluppati, la questione della sicurezza è reale, e soprattutto viene avvertita come grave sulla più vasta area di pubblica opinione, costituendo il sintomo di un fenomeno che è più di un disagio sociale. Tuttavia su questo problema reale si innesca una campagna di opinione pubblica, organizzata in modo strumentale, che mira a fomentare l’insicurezza e la paura e a vendere politiche repressive ed assurde, come dimostra l’accanita e ingiustificata campagna contro la legge Gozzini.
Da un lato vi é un’emarginazione di parte non limitatissima della popolazione, che si chiama tossicodipendenza, delinquenza occasionale, malavita organizzata, prostituzione, accattonaggio, che é fenomeno presente nell’immigrazione, ma non è proprio soltanto ad essa . Problemi che richiamano anzitutto politiche sociali, culturali, assistenziali, ma che sono anche di ordine pubblico; da affrontare da questi due lati, ma con la scelta di chi, anche attraverso misure repressive, sempre mira a percorrere una via che porti alla soluzione sociale e culturale.
Un aspetto particolarmente difficile della questione è la sensazione diffusa nella popolazione che il contatto obbligato con questa emarginazione sociale comprometta, inevitabilmente, le proprie condizioni modeste ma di relativo benessere già conquistato e mantenuto a fatica. Sensazione ulteriormente grave, al limite della più acuta drammaticità, nei protagonisti di certe attività che sono più soggette al tragico ricatto di atti delinquenziali. In questa situazione sono compromessi gli orientamenti anti-razzisti e solidaristici anche in correnti di opinione già ancorate a sinistra, e si va radicando un diffuso atteggiamento retrivo e conservatore.
E’ una situazione che impone alla sinistra una complessa mediazione sociale e culturale, che sembra sfuggirle. L’emarginazione è l’estrema conseguenza dell’inasprirsi delle contraddizioni sociali, della sistematicità delle condizioni precarie, del dominio della competitività individuale, che è l’esito della società capitalistica a fine secolo. Il recupero delle idealità egualitarie, dei principi solidaristici e anti-razzisti è il fondamento di una linea coerente della sinistra. Ma non è in sé sufficiente. Ne consegue l’esigenza di perseguire un ordine pubblico fondato su politiche di integrazione sociale e culturale e su un’efficienza della macchina della giustizia e delle forze dell’ordine a questa correlate.
Ma questa linea va perseguita coerentemente: è l’opposto del principio “tolleranza zero”, della riduzione del tema sicurezza all’azione della polizia.
In questo contesto va ripreso il tema della efficienza della giustizia. E’ una macchina che funziona male, come tutte le strutture dello Stato dominate da una sostanziale condizione burocratica, e in una permanente contraddizione.
Deve corrispondere ad una legislazione preoccupata di difendere i diritti personali, ancorché riguardino persone che hanno compiuto reati, ma sembra poco in grado di assicurare che siano puniti questi reati, pure nei limiti della giusta preoccupazione prima richiamata.
E’ intervenuta sulla corruzione politica e burocratica con forza, ma non sembra sia in grado di portare a conclusione questo intervento e il fenomeno corruzione non è per niente debellato. Deve contrastare una delinquenza ampiamente organizzata, nella difficoltà costituita non solo da vaste aree di omertà, ma anche dal rifiuto di accettare la legge che è parte, si può dire, del costume nazionale.
D’altra parte le sollecitazioni politiche sono profondamente contraddittorie. A livello dei processi, e delle stesse indagini, si reclamano in continuazione maggiori garanzie per gli imputati (specialmente quando si tratta di imputati eccellenti), e quindi si delimitano i poteri della magistratura e si rende più farraginosa la procedura penale. Ma nella vita di tutti i giorni si chiede una maggiore capacità repressiva e di indagine delle forze dell’ordine e della magistratura incaricate di controllarle e orientarle.
Assurdo pensare di affrontare problemi come questi su un piano solo eminentemente formale, irrigidendo ulteriormente il quadro legislativo, anche con un’articolazione esasperata delle regole della Costituzione che dovrebbero riguardare solo le fondamenta del diritto. In questo quadro la riforma dell’art. 111 della Costituzione, seppure non censurabile sotto il profilo culturale, nell’applicazione concreta rischia di rendere ancora più burocratica e pesante la macchina della giustizia. Questa macchina attualmente produce, in quote crescenti, un lavoro fine a sé stesso, se si considera la crescita esponenziale delle prescrizioni. Di qui la necessità di reagire all’irrazionalità di una amnistia strisciante e ineguale attraverso le prescrizioni, affrontando in modo franco il tema non più rinviabile dell’amnistia, accompagnata a provvedimenti strutturali che favoriscano la deflazione del carico giudiziario.

Autore: Domenico Gallo

Nato ad Avellino l'1/1/1952, nel giugno del 1974 ha conseguito la laurea in Giurisprudenza all'Università di Napoli. Entrato in magistratura nel 1977, ha prestato servizio presso la Pretura di Milano, il Tribunale di Sant’Angelo dei Lombardi, la Pretura di Pescia e quella di Pistoia. Eletto Senatore nel 1994, ha svolto le funzioni di Segretario della Commissione Difesa nell'arco della XII legislatura, interessandosi anche di affari esteri, in particolare, del conflitto nella ex Jugoslavia. Al termine della legislatura, nel 1996 è rientrato in magistratura, assumendo le funzioni di magistrato civile presso il Tribunale di Roma. Dal 2007 al dicembre 2021 è stato in servizio presso la Corte di Cassazione con funzioni di Consigliere e poi di Presidente di Sezione. E’ stato attivo nel Comitato per il No alla riforma costituzionale Boschi/Renzi. Collabora con quotidiani e riviste ed è autore o coautore di alcuni libri, fra i quali Millenovecentonovantacinque – Cronache da Palazzo Madama ed oltre (Edizioni Associate, 1999), Salviamo la Costituzione (Chimienti, 2006), La dittatura della maggioranza (Chimienti, 2008), Da Sudditi a cittadini – il percorso della democrazia (Edizioni Gruppo Abele, 2013), 26 Madonne nere (Edizioni Delta Tre, 2019), il Mondo che verrà (edizioni Delta Tre, 2022)

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