Il 13 novembre 2001 George W. Bush, in forza dell’autorità concessagli come Presidente e come Comandante delle Forze Armate dalla Costituzione e dalle leggi degli Stati Uniti, ha emanato una Direttiva militare concernente la “detenzione, il trattamento ed il processo dei non-cittadini nella guerra contro il terrorismo”.
Nelle premesse della direttiva presidenziale si rileva che i terroristi internazionali, compresi i membri di Al Qaida, hanno realizzato attacchi contro i cittadini ed il personale diplomatico e militare degli Stati Uniti in una scala tale da creare uno stato di conflitto armato che richiede l’intervento delle Forze Armate americane. In questo contesto – viene osservato che – la capacità degli Stati Uniti di proteggere sé stessi, i loro cittadini e quelli degli Stati Alleati da ulteriori attacchi terroristici dipende in parte significativa dall’uso delle Forze armate americane per identificare i terroristi, interrompere le loro attività ed eliminare la loro capacità di condurre simili attacchi.
Quindi il Presidente decreta che, per l’effettiva prevenzione degli attacchi terroristici è necessario che gli individui sospettati di appartenere ad Al Qaida o ad altre organizzazioni terroristiche siano detenuti e, quando è il caso, siano processati da Tribunali militari per violazione delle leggi di guerra e delle altre leggi applicabili.
Quindi il Presidente stabilisce che per i processi celebrati dalle Corti Militari, in applicazione della Direttiva non si applicano i principi di diritto e le regole in tema di prove generalmente riconosciute nei processi relativi a casi criminali dalle Corti distrettuali degli Stati Uniti. La Direttiva delega il Ministro della difesa a prendere tutte le misure necessarie per assicurare la detenzione ed il processo dei sospettati di terrorismo. A tal fine è previsto che tutti gli individui soggetti al trattamento di cui alla Direttiva (quindi tutte le persone processate o indagate per terrorismo negli Stati Uniti) debbano essere consegnati, da ogni altra autorità, o Stato nelle mani delle Forze Armate. Il Ministro della Difesa provvede a garantire la detenzione di tali persone, che può avvenire sia dentro che fuori dal territorio nazionale, assicurando che i detenuti siano trattati umanamente, senza distinzione di razza, sesso o religione, siano forniti, di acqua, cibo e cure mediche e possano esercitare liberamente le pratiche religiose. Per quanto riguarda il processo, è data carta bianca al Ministro della Difesa, il quale deve istituire i giudici, incaricare i pubblici ministeri, fissare le regole di procedura riguardanti l’acquisizione delle prove, la fase preliminare, il giudizio e la fase successiva, tenendo conto che il Tribunale militare (più opportunamente chiamato : commissione militare) può sedere in ogni tempo ed in ogni luogo, e che il processo si può concludere anche con la condanna all’ergastolo o a morte.
Per quanto riguarda l’acquisizione delle prove, le regole procedurali devono tener conto della necessità di proteggere le informazioni riservate, mentre non vi è alcun obbligo di assicurare la pubblicità del dibattimento. Per l’emissione di un verdetto di condanna è necessaria la concorrenza di due terzi dei voti dei giudici presenti al momento del voto, che integrino la maggioranza (semplice) dei giudici incaricati dell’affare. Le sentenze non possono essere appellate, ma non sono neanche definitive, in quanto l’ultima parola spetta al Presidente o al Ministro della Difesa, ove a ciò designato dal Presidente.
Riassumendo, con la direttiva del 13 novembre Bush ha creato una giurisdizione (ammesso che così si possa chiamare) straordinaria, riservata agli stranieri ed affidata alle forze armate. Nell’ambito di questa giurisdizione è previsto che alcuni organi delle Forze Armate debbano individuare i sospetti (che possono essere solo stranieri) da sottoporre al trattamento previsto dalla direttiva presidenziale. Una volta individuati i sospetti possono essere arrestati (sempre dalle forze armate americane), ovunque si trovino, e sottoposti a detenzione o negli Stati Uniti o all’estero senza limiti di tempo. La detenzione può sfociare in un processo, che può essere celebrato ovunque, presumibilmente sulle portaerei o nelle basi militari americane sparse in tutto il mondo. Il processo può essere celebrato segretamente (o a porte chiuse), da giudici scelti dal Ministro della Difesa, con norme procedurali stabilite all’uopo dall’amministrazione militare, svincolate dai principi di diritto e dalle regole probatorie che vigono per i processi penali celebrati nelle Corti americane. La sentenza di condanna può essere anche all’ergastolo o a morte e non è previsto appello, ma solo la possibilità che la decisione finale sia avallata o revisionata dal Presidente degli Stati Uniti.
Così con un semplice provvedimento presidenziale, al di fuori di ogni controllo o procedure parlamentare, è stato introdotto un Tribunale davvero speciale, al cui confronto impallidirebbe persino il Tribunale speciale per la difesa dello Stato istituito dal regime fascista, il quale, malgrado il suo peccato originale era comunque soggetto alla procedura ed al diritto penale vigente e non discriminava sulla base della nazionalità.
E’ evidente che questa Direttiva di Bush introduce una procedura veramente extra ordinem della quale è impossibile trovare dei precedenti negli ordinamenti fondati su costituzione o sul principio dello Stato di diritto (rule of the law). In pratica il Presidente, autolegittimandosi con la necessità – politicamente incensurabile – di effettuare una efficace azione di contrasto contro il terrorismo, finisce per concentrare nelle sue mani, in particolare nella veste di Capo delle Forze Armate, il potere legislativo, quello giudiziario e quello esecutivo, assume quindi le funzioni di legislatore (emanando direttamente – attraverso il Ministro della Difesa – una legge speciale, svincolata dai principi di diritto sostanziali e processuali vigenti nell’ordinamento, quelle di giudice, scegliendosi i giudici che più lo aggradano, e quelle di capo dell’esecutivo, procedendo manu militari alla cattura dei sospetti ed all’esecuzione delle condanne a morte attraverso il sistema militare.
Non appare, pertanto, fuori luogo il durissimo commento che, il 15 novembre 2001, William Safire, editorialista conservatore del New York Times ha riservato a questo progetto, osservando che il Presidente ha assunto il potere dittatoriale di imprigionare o giustiziare gli stranieri. Non ci sarà più un ordine giudiziario ed una giuria indipendente – osserva Safire – che si frapponga fra il Governo e l’accusato. Gli stranieri si troveranno di fronte ad un potere esecutivo che adesso è diventato investigatore, pubblico ministero, giudice, carceriere e boia.
Come si concilia questa nuova giurisdizione che annulla ogni forma di divisione dei poteri con le regole ed i valori della Costituzione degli Stati Uniti?
Non si concilia affatto, semplicemente la costituzione non si applica agli stranieri. “Le garanzie della costituzione americana, non si estenderanno ai nostri nemici arrestati all’estero”, spiega il consulente legale della Casa Bianca, Alberto Gonzalez (Repubblica, 2 dic. 2001).
Qui emerge un vizio antico, che attraversa come una costante tutta la storia americana. Sono dei proprietari di schiavi ad affermare nella Dichiarazione di indipendenza del 4 luglio 1776 che “tutti gli uomini sono stati creati uguali, che il Creatore li ha investiti di certi diritti inalienabili, tra questi diritti ci sono la vita e la libertà.”
Coloro che riconoscevano solennemente l’eguaglianza e l’esistenza di diritti fondamentali inviolabili, in realtà intendevano riferirsi esclusivamente ai diritti del proprio gruppo sociale/etnico, non a quelli degli altri. Infatti la Corte Suprema degli Stati Uniti, interpretando le intenzioni dei padri costituenti, decise nel 1857 che i negri non godono della protezione costituzionale poichè non sono “persone”, ai fini dei testi che utilizzano questo termine. Certamente non venivano considerati “persone” gli indiani Sioux Santee che furono sopraffatti dall’esercito federale nel Minnesota nell’ottobre del 1862. Centinaia di prigionieri furono giudicati nel corso di processi militari, della durata di circa 10 minuti ciascuno, e furono tutti condannati a morte (come ci racconta David A. Nichols nel suo libro, Lincoln and the Indians).
Le autorità politiche del Minnesota volevano che l’esercito federale mettesse subito a morte tutti i 303 condannati. Lincoln però si oppose – bontà sua – e ridusse l’elenco dei giustiziandi a 39, promettendo però ai politici del Minnesota che l’esercito federale avrebbe ucciso o cacciato tutti gli indiani dallo Stato (cfr. Thomas Di Lorenzo, America’s Disgraceful History of Military Trias). Le esecuzioni degli indiani ebbero luogo tutte insieme il 26 dicembre del 1862 a Mankato, nel Minnesota.
Dopo la Carte delle Nazioni Unite, dopo la dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948, dopo i Patti Onu del 1966 sui diritti civili e politici, è evidente che nessuna costituzione, neppure quella americana, può più essere interpretata nel senso che taluni uomini possano essere considerati “persone” e come tali godere dei diritti che una comunità politica riconosce come inerenti alla dignità dell’essere umano ed altri no. Il problema però non può essere ridotto ai dubbi profili di costituzionalità interna al sistema giuridico degli USA, sia perché questa nuova giurisdizione è riservata gli stranieri, e quindi proietta la sua ombra all’estero, sia perché esistono dei principi che regolano il potere di punire degli Stati, che sono normalmente riconosciuti dalla Comunità internazionale.
Nella comunità internazionale, infatti, è generale il riconoscimento che la coercizione penale debba essere sottoposta ad una serie di regole, poiché il potere di punire di ciascuno Stato incontra il limite del rispetto dei diritti fondamentali dell’individuo, fra i quali un posto privilegiato spetta al diritto ad un giusto processo da parte di un giudice imparziale. Nel diritto ad un giusto processo rientra l’interdizione di ogni discriminazione che sia basata sul sesso, sulla razza o sull’origine nazionale, come prevede l’art. 26 del Patto Internazionale ONU sui diritti civili e politici del 1966. Istituire un “Tribunale speciale” riservato ai non cittadini, costituisce una patente violazione del principio di non discriminazione poiché introduce una tutela (e quindi una coercizione) penale differenziata per i cittadini e gli stranieri in aperta violazione dei principi di civiltà giuridica affermati dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e resi cogenti dal Patto Internazionale sui diritti civili e politici. E’ vero che gli Stati Uniti, pur avendolo firmato, non hanno mai ratificato il Patto, come non hanno mai ratificato tutte le altre Convenzioni internazionali sui diritti umani, (dalla Convenzione contro il genocidio del 1948, fino alla più recente Convenzione per i diritti del fanciullo) in virtù di una concezione della loro sovranità nazionale che si ammanta di assolutezza e non accetta i vincoli del diritto. Tuttavia non si può ignorare che esistono degli standard legali in ordine alla giurisdizione (che riguardano l’interdizione di ogni discriminazione nella tutela legale, e la necessità di un giudice imparziale) che vengono generalmente riconosciuti dalla Comunità delle Nazioni e che il Tribunale speciale di Bush fallisce di adeguarsi a tali standard. E’ ben vero che nella Direttiva di istituzione del Tribunale, come abbiamo visto, è specificato che tutti gli arrestati dovranno essere trattati umanamente, senza alcuna discriminazione che sia basata sul sesso, la razza, il colore della pelle, la nascita, la salute, etc., ma tale rivendicazione di eguaglianza non ha altro valore che non sia di beffa, dal momento che la massima discriminazione è avvenuta a monte attraverso l’istituzione stessa di un Tribunale penale speciale, riservato agli stranieri, e svincolato dal diritto, dalla cui giurisdizione e procedura i cittadini americani sono indenni. Si inaugura in questo modo uno sciagurato diritto duale che addirittura formalizza il doppio standard in tema di diritti umani che i paesi del terzo mondo rimproverano, non senza motivo, all’occidente.
E’ appena il caso poi di osservare che nel nostro ordinamento costituzionale un Tribunale militare speciale per gli stranieri, non sarebbe neanche lontanamente concepibile. Esso infatti contravverrebbe al divieto di istituire giudici speciali che i costituenti saggiamente hanno introdotto (art. 102 cost.) per evitare si potesse ripetere, sia pure in mutate condizioni storiche, l’esperienza del Tribunale speciale del fascismo e contravverrebbe il diritto alla (eguale) tutela giurisdizionale di cui all’art. 24 della Costituzione, che la Corte Costituzionale ha ripetutamente qualificato come diritto fondamentale ed inviolabile dell’individuo, che deve essere assicurato a tutti, senza distinzioni di cittadinanza.
Qui ci troviamo di fronte più che a una struttura giudiziaria, ad uno strumento per la prosecuzione della guerra con altri mezzi: una sorta di attrezzatura legale che consente all’apparato militare di continuare l’azione offensiva intrapresa con i bombardamenti. In particolare un siffatto tribunale consente alle forze armate americane di completare il trattamento dei prigionieri della legione straniera islamica catturati in Afganistan e sopravvissuti alle rappresaglie e vendette di questi giorni.
Non è un caso infatti che un siffatto Tribunale fu istituito negli Stati Uniti nel corso della II Guerra mondiale per corrispondere ad esigenze di sicurezza funzionali allo svolgimento della guerra e fu utilizzato per condannare all’impiccagione alcuni sabotatori tedeschi sbarcati sul suolo americano. In questa condizione di difetto strutturale di imparzialità, è facile prevedere che le condizioni del “fair trial” difficilmente sarebbero rispettate, a partire dal divieto del ricorso alla tortura, per finire ai metodi di acquisizione e validazione delle prove.
Insomma ci troviamo di fronte ad un mostro giudiziario ed è sin troppo facile il raffronto con quella Corte Internazionale di giustizia, concepita con il Trattato di Roma del 1998, alla quale gli Stati Uniti si sono sempre opposti, che appare in confronto come un faro di civiltà, oltre ad essere l’unica soluzione decente ed a portata di mano per la repressione dei crimini contro l’umanità, come quello commesso l’11 settembre a New York. Per le sue ambizioni di giustizia globale, il Tribunale speciale di Bush è l’anti-Corte internazionale di Giustizia, la risposta, in una logica imperiale, all’esigenza della Comunità internazionale di contrastare quegli atti di violenza che lo Statuto della Corte di Roma riconosce come crimini internazionali.
Infatti al progetto del Tribunale speciale si accompagna il progetto politico di una sorta di giurisdizione speciale universale. Il “gendarme del mondo” vuole diventare il “giudice del mondo”, come ci riferisce Vittorio Zucconi in una corrispondenza da Washington Secondo questo progetto “tutti i capi, i gregari, i complici e le cellule di Al Qaeda, ovunque siano catturati o arrestati, a Milano come a Kandahar, ad Amburgo come a Londra, dovranno essere consegnati alle corti marziali che il ministero della giustizia ed il Pentagono stanno preparando.” (cfr. Repubblica del 2 dicembre 2001).
Tuttavia, per quanto riguarda l’Europa questo progetto è destinato ad incontrare un ostacolo non facilmente superabile: la Convenzione Europea dei Diritti dell’uomo, il cui Protocollo n. 6 ha abolito la pena di morte ed ha cancellato la possibilità per gli Stati aderenti alla Consiglio d’Europa tanto di infliggere, quanto di eseguire condanne a morte. Ciò costituisce un ostacolo, in linea di principio all’estradizione verso gli Stati Uniti di tutte quelle persone che siano accusati di reati per i quali possano essere passibili della pena di morte (come lo sono tutti quelli sottoposti alla giurisdizione del Tribunale speciale di Bush). Per quanto riguarda l’Italia, la Corte Costituzionale, nel caso di Pietro Venezia, ha posto uno sbarramento insuperabile all’estradizione verso paesi che prevedono nel loro ordinamento la pena di morte, dichiarando l’illegittimità costituzionale del comma II dell’art. 698 del codice di procedura penale (norma che consentiva l’estradizione per un fatto per il quale nello Stato estero è prevista la pena di morte a condizione che venissero fornite garanzie sufficienti che la pena di morte non sarebbe stata eseguita). Non bastano le garanzie – ha statuito la Corte – l’estradizione non è mai ammissibile quando la pena di morte – ancorché non eseguibile – è prevista nell’ordinamento dello Stato che domanda l’estradizione.