L’istanza di remissione del processo Sme-Ariosto, lungamente preannunziata dalle televisioni e dai giornali di proprietà dell’imputato, ed alla fine depositata nei giorni scorsi, non è il lecito esercizio di una facoltà processuale, compiuta dal cittadino Berlusconi, come qualcuno incautamente ha dichiarato. Infatti se il codice di rito (art. 45) riconosce all’imputato la facoltà di chiedere la rimessione del processo “quando la sicurezza o l’incolumità pubblica, ovvero la libertà di determinazione delle persone che partecipano al processo sono pregiudicate da gravi situazioni locali tali da turbare lo svolgimento del processo”, è ben vero che costituisce un illecito processuale il ricorso abusivo a tale facoltà. Tant’è vero che la Cassazione se rigetta o dichiara inammissibile la richiesta dell’imputato può condannarlo al pagamento di un’ammenda (art. 48).
Ovviamente, dal punto di vista processuale saranno le sezioni unite della Cassazione a risolvere il dilemma e a fare una valutazione definitiva e vincolante per le parti. Questo non ci può esimere da una valutazione politica, poiché pur essendo quello in questione un processo ordinario per fatti di criminalità comune, per la qualità degli imputati, il suo esito non può non avere un enorme rilievo politico, come enorme rilievo politico hanno sin qui avuto le iniziative dell’imputato e dei suoi difensori per difendersi dal processo. Ed allora bisogna rilevare che questa iniziativa costituisce un’ulteriore escalation del processo di intimidazione e delegittimazione dei magistrati e di ostruzionismo volto ad impedire e rallentare la celebrazione del processo anche attraverso l’abuso degli strumenti processuali.
Gli atti di intimidazione dei giudici compiuti attraverso denigrazioni ripetute ed ossessive compiute da vari personaggi ed in varie sedi sono ormai così stratificati che è impossibile persino riepilogarli. Basti pensare all’uscita dell’ex sottosegretario Taormina che ha invocato addirittura l’arresto dei giudici milanesi e l’incredibile mozione parlamentare del 5 dicembre, con la quale il Senato ha sottoposto a pesanti critiche i provvedimenti giudiziari relativi ai processi penali in corso riguardanti l’on. Berlusconi e l’on. Previti, accusando i magistrati di essersi ribellati alla legge ed alla Corte costituzionale e di “usare l’alto mandato, con le relative prerogative previste dalla Costituzione, ai fini di lotta politica, fino ad interferire nella vita politica del paese”, per finire alla solenne accusa rivolta ai magistrati di mani pulite dal presidente del Consiglio, di aver scatenato in Italia “una guerra civile”, ispirata da un “complotto comunista”.
Ma si pensi anche all’aperto tentativo del ministro della Giustizia di bloccare la celebrazione del processo milanese, negando la proroga delle funzioni ad un membro del collegio giudicante, trasferito ad altro ufficio, con l’effetto di consentire ai difensori di chiedere il rinnovamento dell’intero dibattimento, che avrebbe determinato la sicura prescrizione dei reati.
A prescindere dal loro concreto contenuto, il processo Sme-Ariosto ed il processo Imi-Sir costituiscono un indicatore del clima istituzionale del tempo presente perché su di essi ed intorno ad essi si misura la garanzia dell’impunità rivendicata dall’attuale ceto dirigente di governo, come necessario ed imprescindibile corollario di una nuova dimensione monista del potere. Intorno alle vicende di questi processi si misura la capacità di un blocco di potere, trasformatosi in maggioranza parlamentare grazie alle alchimie del maggioritario, di trapassare in regime, rendendosi immune ai poteri di controllo. La questione è tanto più significativa proprio perché l’oggetto dei due processi riguarda le più gravi vicende di corruzione dei giudici (cioè dei guardiani delle regole) che si siano mai verificate nella storia della repubblica. Siamo in presenza quindi di un potere che tende ad ammantarsi di assolutezza, neutralizzando i controlli di legalità.
Riflettendo su questa vicenda l’unico antecedente a cui si può fare riferimento è il processo per il delitto Matteotti. Anche allora si trattava di un processo per un delitto comune che scuoteva notevolmente e minacciava il potere politico conquistato dai nuovi governanti dell’epoca. Anche allora si trattava di un processo che faceva emergere il volto oscuro ed illegale del potere (che all’epoca consisteva nel ricorso alla violenza squadrista sino all’omicidio degli avversari, mentre oggi consiste nel ricorso alla corruzione per acquistare potere attraverso il denaro). Anche allora il capo del governo dell’epoca effettuò una drastica azione di delegittimazione ed intimidazione dei magistrati, buttando sul piatto della bilancia il peso politico del proprio regime, forte di una schiacciante maggioranza parlamentare e del consenso politico quasi plebiscitario conquistato alle elezioni del 6 aprile 1924. Nel suo discorso alla camera del 3 gennaio 1925 (che segnò la metamorfosi del partito di governo in regime) Mussolini si espresse in questo modo: “Dichiaro qui, al cospetto di questa assemblea ed al cospetto di tutto il popolo italiano, che io assumo, io solo, la responsabilità politica, morale e storica di tutto quanto è accaduto”.
Anche allora i giudici non furono spogliati del tutto del potere di procedere, ma il processo Matteotti divenne quasi impossibile da celebrare. La conseguenza fu che la Sezione Istruttoria della Corte d’appello di Roma, giunse ad una pronunzia particolarmente “garantista” con la quale escluse, per i mandanti del sequestro, Cesare Rossi, Giovanni Marinelli, Filippo Filippelli (personaggi autorevoli del partito fascista) l’imputazione di omicidio, sostenendo che essi avevano programmato soltanto il sequestro di persona, essendo stato l’omicidio frutto del “dolo d’impeto” dei sicari. A questo punto la provvidenziale amnistia del 31 luglio 1925 salvò i mandanti dall’onta del processo ed il partito di cui erano autorevoli esponenti dal discredito che ne sarebbe derivato. Di conseguenza furono rinviati a giudizio soltanto i sicari. E tuttavia, anche così mutilato e depotenziato il processo a Roma dava troppo fastidio perché suscitava troppo clamore nell’opinione pubblica. Così furono sollevati “gravi motivi di pubblica sicurezza” (art. 13 c.p.p. del 1913) che determinarono una rimessione del procedimento a Chieti, sede tranquilla dove la celebrazione del processo poteva arrecare meno danni.
L’espediente delle remissione, anche se era volto a far appassire il clamore politico, non servì a far abbassare i toni ai gerarchi dell’epoca che difendevano gli imputati. Anche allora gli avvocati trasformarono la difesa in attacco, mettendo sul banco degli imputati le vittime ed i giudici. Roberto Farinacci, segretario politico del partito, dopo aver definito la vittima “un gran porco” si espresse in questo modo: “se la procedura penale me lo avesse permesso, io oggi sarei qui in veste di parte civile per conto del mio partito, che per lunghi mesi è stato atrocemente diffamato da coloro che oggi in questo processo, sono considerati da noi, dalla nazione, i veri imputati: gli oppositori al regime, gli oppositori al fascismo”. Alla fine il processo si concluse con una derubricazione del reato in omicidio preterintenzionale e l’irrogazione di pene lievi, che furono quasi completamente assorbite dall’indulto.
Da un certo punto di vista l’istanza di remissione del processo Sme Ariosto è un tocco di classe perché ripercorre le stesse tracce di un illustre precedente storico, essendo ispirata dalle stesse esigenze e dalla stessa logica. Ma siccome la storia non si ripete mai uguale, è veramente difficile che Berlusconi possa conseguire lo stesso successo del suo predecessore.