MAGISTRATURA DEMOCRATICA
XVII CONGRESSO NAZIONALE
DOMANDE DI GIUSTIZIA E QUALITA’ DELLA GIURUSDIZIONE
IL DOVERE DELLA VERITÀ
Siamo tutti consapevoli che viviamo in tempi difficili. Siamo tutti consapevoli della necessità di fare quadrato attorno al modello costituzionale della magistratura e di difendere assieme, l’indipendente esercizio della giurisdizione e la qualità delle risposte di giustizia dagli attacchi che vengono portati avanti in tutti i modi e su tutti i fronti. Anche se non possiamo far altro che difendere, zolla per zolla, il terreno che la Costituzione ci ha assegnato, non per questo dobbiamo rinunziare a guardare oltre il nostro ridotto costituzionale. Resta il dovere della verità. Tale dovere comporta che nulla sia taciuto delle cose che, pur nel diluvio delle informazioni, restano nascoste.
E allora non possiamo non vedere che nel nostro paese è in atto un cambiamento del regime politico. Non possiamo non vedere che lo spirito pubblico che anima le forze politiche di maggioranza soffia in una direzione esattamente contraria ai principi ed ai valori fondamentali della Costituzione italiana e del costituzionalismo moderno.
Nella nostra storia costituzionale ci sono sempre state delle discrasie fra il modello costituzionale e gli orientamenti delle principali forze di governo, e ci sono state delle fasi storiche in cui la “costituzione materiale” si è un po’ più avvicinata o un po’ più allontanata al modello di democrazia nascente dalla Costituzione, ma non si era mai verificato un regime, nel senso di reggimento delle cose politiche, completamente svincolato dai beni ed i valori costituzionali. Come ci insegna Gustavo Zagrebelski (in un mirabile articolo su Repubblica del 26 novembre 2008), non voler vedere significa prendere per lucciole quelle che invece sono delle lanterne, mentre l’accumulo progressivo di materiali di costruzione del nuovo regime va avanti, fino a quando non si potrà non vedere, ma allora sarà troppo tardi.
La cartina di tornasole che qualifica e distingue i regimi politici – sempre secondo Zagrebelski – è che segna il passaggio dall’uno all’altro, è l’atteggiamento di fronte all’eguaglianza, il valore politico, fra tutti, il più importante.
Ebbene noi non possiamo non vedere che stiamo assistendo ad una clamorosa rottura del principio di eguaglianza, quale non si verificava in Italia dai tempi delle leggi razziali.
E’ dai tempi delle leggi razziali che non si vedevano misure di persecuzione, così gravi, nei confronti di gruppi sociali deboli, e di discriminazione nel godimento dei diritti fondamentali, come accade nelle velenose misure nascoste nei vari pacchetti e decreti sicurezza. Dalla creazione di un diritto penale del tipo di autore, alla cancellazione o derubricazione di diritti fondamentali, come quello di contrarre matrimonio o di ricevere cure mediche, per una popolazione che comprende centinaia di migliaia, forse milioni di persone.
Il richiamo alle leggi razziali del 38 non è un eccesso polemico.: il pacchetto sicurezza riprende due specifici istituti previsti dalle leggi razziali del 38, cambiando soltanto l’oggetto della discriminazione. Si tratta del divieto dei matrimoni misti e del Registro degli indesiderabili.
Con l’art. 1 del Regio decreto legge del 17 novembre 1938 (provvedimenti per la difesa della razza italiana) fu sancito il divieto dei matrimoni misti. (“il matrimonio del cittadino italiano di razza ariana con persona appartenente ad altra razza è proibito”).
Il fascismo non aveva impedito – in assoluto – agli ebrei di contrarre matrimonio, vietando “soltanto” il matrimonio misto.
Adesso è tornato lo stesso divieto, introdotto in forme mascherate, ma molto più gravi perché l’effetto di impedire i matrimoni misti è stato raggiunto vietando – in assoluto – agli stranieri, che non siano titolari di un valido permesso di soggiorno, di contrarre matrimonio.
Nel luglio del 1938 fu istituito presso il Ministero dell’Interno il registro degli ebrei.
Col pacchetto sicurezza è ritornato lo stesso istituto, rivolto ad una speciale categoria di soggetti indesiderabili, infatti l’art. 50 del disegno di legge prevede l’istituzione presso il Ministero dell’Interno di un registro dei senza casa.
Oltre a questi due specifici istituti delle leggi razziali il pacchetto sicurezza introduce delle misure persecutorie che nemmeno il fascismo aveva concepito nei confronti degli ebrei. Infatti le leggi razziali non introducevano alcun ostacolo per l’accesso degli ebrei alle cure mediche e soprattutto non sottraevano alle madri ebree i figli dalle stesse generate. L’Italia del 1938, infatti, non avrebbe potuto accettare un insulto così grave all’etica della famiglia, quale la scissione del nucleo fondamentale di ogni famiglia, vale a dire il rapporto fra la madre ed il figlio da lei generato.
Ed invece questo è proprio quello che succederà, attraverso il divieto imposto alla madri immigrate (prive di permesso di soggiorno in corso di validità) di fare dichiarazioni di Stato civile.
Non potendo essere riconosciuti, i figli saranno sottratti alle madri che li hanno generati e seguiranno la sorte dei trovatelli: l’ufficiale di Stato civile darà loro un altro nome ed il Tribunale dei Minorenni curerà che siano inseriti in una casa famiglia in vista dell’adozione.
Per evitare di essere private dei propri figli le madri dovranno partorire clandestinamente e far entrare il neonato in un circuito di clandestinità da cui non si può uscire, che lo escluderà per sempre dal godimento dei diritti fondamentali previsti dalla Convenzione dell’ONU sui diritti del fanciullo.
Non c’è dubbio che questa norma si pone al vertice delle misure discriminatorie che si stanno introducendo. Per questo ha un grande valore simbolico.
Si tratta di una norma “ontologicamente ingiusta”, che incarna un diritto completamente svincolato dalla giustizia.
In questo modo ritorna d’attualità quel conflitto antichissimo fra la giustizia ed il diritto, che nella cultura occidentale è stato mirabilmente raffigurato nel mito di Antigone. Il conflitto fra Antigone e Creonte, tiranno di Tebe, rappresenta la metafora di un dilemma sempre ricorrente fra le leggi dell’umanità (agrafoi nomoi) e le dure leggi del potere, fra la “Pietas” e l’”Auctoritas”.
Il costituzionalismo moderno aveva risolto questo conflitto, incardinando il fenomeno giuridico all’interno di una tavola di valori dalla quale non poteva essere separato.
Per questo quando noi ci troviamo di fronte ad una legge ingiusta, la prima osservazione che ci viene in mente è che è incostituzionale, cioè è priva di legittimità per far parte dell’ordinamento giuridico.
La situazione che si sta sperimentando attraverso l’introduzione di norme così ontologicamente ingiuste è particolarmente grave perché rappresenta la punta di iceberg di una tendenza che punta a cambiare nuovamente la natura del diritto, separandolo dalla giustizia e restituendolo alla dimensione del mero comando politico reso obbligatorio dall’esercizio della sovranità. In altre parole il diritto diventerebbe puramente e semplicemente l’arbitrio del sovrano.
Se cambia la natura del diritto, particolarmente delicato diviene il ruolo del giudice in quanto la giurisdizione si trova inserita al centro di questo conflitto fra il diritto e la giustizia. La domanda è questa: la giurisdizione è al servizio di Creonte o di Antigone?
Può il giudice trasformarsi nel braccio armato, incaricato di far rispettare le leggi del tiranno di Tebe o rimane, pur sempre l’interprete di una funzione al servizio della giustizia?
Orbene rispetto all’epoca raffigurata da Sofocle, adesso c’è un cambiamento fondamentale, le leggi dell’umanità non sono più “agrafoi nomoi”, ma sono diventate “grafoi nomoi”, sono scritte nelle Costituzioni, nelle Carte internazionali sui diritti dell’uomo, nella Carta dei diritti dell’Unione Europea.
Questi “grafoi nomoi” sono l’onore della giurisdizione e danno senso alla funzione giurisdizionale, che – non a caso – in questo momento storico è invisa al massimo al tiranno di Tebe.
Quando noi denunziamo il pericolo di un regime che avanza, nel deserto delle forze politiche democratiche, probabilmente quello che fa la differenza e che può impedire una trasformazione definitiva, è proprio la giurisdizione.
E’ diventata, pertanto, di nuovo attuale la lezione di un maestro “carismatico” del diritto, Domenico Barbero, che nell’introduzione del suo testo di diritto privato, non si stancava di denunziare i guasti di una interpretazione pedestre della legge, che aveva ridotto la Giurisprudenza dalla maestà di una “divinarum atque humanarum rerum notizia” ad una “meccanica esercitazione di codice” Questo metodo – denunziava Barbero – “ha prodotto l’ambiente e le condizioni tecniche ideali per la dittatura fascista. Che non sarebbe forse passata con una giurisprudenza più cosciente e, pertanto, più gelosa della sua superiorità della sua funzione; e che potrebbe anche ripresentarsi se la giurisprudenza non si affretta a prendere coscienza di codesta superiorità, a rifarsi un abito mentale che ripristini la ragione, dovunque sia bandita..fosse anche dalla legge, e a considerare sé stessa non come fucina di sentenze ottenute meccanicamente attraverso l’introduzione di un articolo di legge, ma fattrice di giustizia indagata e, se occorre, faticosamente rintracciata al vaglio di tutti gli elementi di ragione, chiudendo anche arditamente la porta di fronte a chiunque pretenda di entrare nel suo stesso tempio a portarvi la profanazione con lo stivale speronato o con la faccia infarinata.”
Noi dobbiamo lavorare insieme perché la giurisprudenza, come richiedeva Barbero, riacquisti la maestà di “divinarum atque humanarum rerum notizia”, in modo che non si possano più ripresentare l’ambiente e le condizioni tecniche ideali per l’instaurazione di una dittatura di vecchio o di nuovo tipo.
Modena, 27 marzo 2009.
Domenico Gallo