Un comandante italiano a Kabul che fa passare per le armi una presunta spia è un assassino o un legittimo combattente? Picchiare un taleban è un crimine o un atto non punibile per mancanza di “reciprocità dello Stato nemico” sul trattamento dei prigionieri? Diffondere notizie diverse da quelle ufficiali o scrivere che la guerra fa schifo è libertà di stampa o reato militare? Questione di interpretazione: in onore di Enduring Freedom torna il codice penale militare di guerra sepolto nel ’45.
Per la prima volta dal 1945, nell’ordinamento giuridico italiano è entrato di nuovo in vigore il Codice penale militare di guerra. Sotto il profilo istituzionale, è questa la vera novità che emerge dalla partecipazione di un corpo di spedizione italiano alla “guerra contro il terrorismo”.
Per tutte le precedenti missioni all’estero compiute dalle forze armate italiane, dalla guerra del Golfo, all’intervento in Somalia, a quello in Bosnia e a quello nel Kosovo, è stata sempre emanata una norma speciale che, in deroga a quanto previsto dall’articolo 9 del Codice penale militare di guerra, prevedeva che alla missione militare italiana all’estero dovessero applicarsi le norme del codice penale militare di pace. Molti giorni dopo il voto del Parlamento sulla partecipazione italiana, nel silenzio generale, è stato emanato un decreto legge (1 dicembre 2001 n. 421), che contiene norme urgenti per la partecipazione di personale militare all’operazione multinazionale denominata “Enduring Freedom”.
Gli articoli 8 e 9 del decreto prevedono che “al corpo di spedizione italiano” si applica il codice penale militare di guerra, con esclusione delle disposizioni di natura processuale. In parole povere, i reati previsti dal codice penale militare di guerra non saranno giudicati dagli speciali Tribunali militari di guerra (che non esistono più) ma dalla ordinaria giustizia penale militare. Nello stesso giorno il governo ha presentato al Senato un disegno di legge che conteneva modifiche al codice penale militare di guerra. Queste modifiche si riducono a ben poca cosa e lasciano interamente in piedi l’impianto normativo e ideologico del codice penale militare di guerra, compresa la giurisdizione dei Tribunali speciali militari, che – invece – il decreto legge ha disapplicato, considerandola incostituzionale. Ma introducono due peggioramenti significativi. Il primo è che viene ampliata la portata dell’articolo 9, prevedendo che in caso di missioni all’estero (anche in tempo di pace), le disposizioni del codice penale militare di guerra si applicano non solo al Corpo di spedizione, ma anche al personale militare che svolge compiti di supporto nel territorio nazionale. Il secondo è che viene reintrodotto il cosiddetto “reato militarizzato”, che nell’ordinamento italiano era stato cancellato nel lontano 1956: i Tribunali militari tornano ad avere competenza su molti reati comuni, purché commessi in divisa. Peraltro il “reato militarizzato” viene introdotto con una ampiezza molto più estesa di quella vigente durante la seconda guerra mondiale.
Non è un caso che il disegno di legge per la conversione del decreto legge Enduring Freedom e il disegno di legge per le modifiche al codice penale militare di guerra siano stati presentati contestualmente. Sono funzionali l’uno all’altro ed esprimono un unico indirizzo in tema di recupero e riutilizzabilità di leggi di guerra che affondano le loro radici nella notte della storia.
Non si può negare che quando si compie una missione con contenuto bellico sorga la necessità che le operazioni militari siano disciplinate da un corpo di norme specifiche, che nel codice penale militare di pace mancano. Ci sono di mezzo parecchie convenzioni internazionali relative al diritto umanitario di guerra, che tutelano la popolazione civile e i prigionieri, convenzioni che vanno rese pienamente operative. Nel codice penale militare di guerra esiste un intero capitolo (il titolo IV) che disciplina i reati contro le leggi e gli usi di guerra, rendendo punibili comportamenti che normalmente sono interdetti dalle Convenzioni internazionali, come le le sevizie e i maltrattamenti ai prigionieri. Gli esempi si sprecano, uno per tutti i cappucci, i tranquillanti, le catene e le gabbie di filo spinato impiegati dalle forze armate americane sui prigionieri di al Qaeda.
Per rendere operativa tale disciplina, però, la strada maestra non era quella di riesumare tutto il codice penale militare di guerra, ma quella di richiamare la disciplina specifica relativa ai reati contro le leggi e gli usi di guerra, dichiarandola applicabile all’operazione “Enduring Freedom”. La strada seguita, paradossalmente, rende invece tale disciplina inoperante. E’ stato infatti riesumato anche l’articolo 165 che prevede che i reati contro le leggi e gli usi di guerra sono punibili “in seguito a disposizione del Comandante Supremo e solo in quanto lo Stato nemico garantisca parità di tutela penale allo Stato italiano ed ai suoi cittadini”. E’ evidente che, nel caso della missione Enduring Freedom, questa condizione di punibilità potrebbe non verificarsi mai, per una semplice ragione: i “terroristi” non sono uno Stato nemico. Il disegno di legge di modifica del codice penale militare di guerra prevede infatti l’abrogazione di questa disposizione, perché contrasta con gli obblighi internazionali assunti dall’Italia e derivanti dalle Convenzioni e dal Protocollo di Ginevra. Ma la disciplina del decreto legge è pienamente vigente, mentre le proposte modifiche del codice penale militare di guerra non si sa se e quando saranno trasformate in legge. Pertanto il decreto legge fallisce completamente l’obiettivo – ammesso che l’abbia mai avuto – di rendere operanti ed applicabili a Enduring Freedom le norme del diritto umanitario che l’Italia ha l’obbligo di osservare.
Tuttavia questa riesumazione delle leggi di guerra non è priva di effetti collaterali. Per esempio, credete che la pena di morte sia stata abolita? Nei fatti potrebbe non essere del tutto vero: è stata richiamata in vita una norma, l’articolo 183, che consente ai comandanti militari di passare immediatamente per le armi le spie o i combattenti che non indossino l’uniforme. Fatto anche più grave, sono state riesumate delle norme che non si applicano soltanto ai militari ma a “chiunque”, come l’articolo 76 che punisce la divulgazione di notizie diverse da quelle ufficiali, o l’articolo 80 che punisce la pubblicazione di critiche o scritti polemici sulle operazioni militari o sull’andamento della guerra, o l’articolo 87 che punisce la denigrazione della guerra.
Ovviamente, dalla riesumazione del codice penale militare di guerra effettuata con il decreto legge non deriva automaticamente che tali norme siano concretamente operanti. A questo punto la questione diventa un problema di interpretazione. E’ interessante, però, notare che queste disposizioni contengono una sorta di codice deontologico dell’informazione di guerra al quale tutti i mass media americani si attengono scrupolosamente, e al quale si attengono spontaneamente una buona parte dei mass media italiani, dai quali, anzi, cominciano a piovere intimazioni a tacere. Si va dal grido silete sociologi, lanciato da Panebianco sul Corriere della Sera del 6 novembre, alla simpatica copertina di Libero che l’8 novembre ha pubblicato le foto dei parlamentari traditori che “stanno con il nemico”, alle esternazioni del generale Fabio Mini che sul numero 4/2001 di Limes ha invocato una “lotta istituzionale” contro “la spazzatura propagandistica e di disinformazione che ci viene propinata sotto le nobili vesti del diritto al dissenso”, aggiungendo con tono minaccioso che essa “non sarà né semplice né indolore” (cfr il manifesto del 21 dicembre).
Insomma non è stato riesumato solo un codice condannato dalla storia, ma è stata riesumata anche una cultura ante seconda guerra mondiale, che credevamo sparita per sempre: tacete, il nemico vi ascolta.