Una lettura meditata della Risoluzione 1546 approvata all’unanimità dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU l’8 giugno scorso dimostra che, dopo tanto travaglio negoziale, alla fine le novità partorite sono più apparenti che reali.
Il sistema di sicurezza collettivo prefigurato dalla Carta delle Nazioni Unite assegna al Consiglio di Sicurezza dell’ONU funzioni delicate e poteri autoritativi che devono essere esercitati per “mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza collettiva” (art. 39).
Poiché la stessa Carta delle Nazioni Unite assicura una posizione di privilegio agli Stati vincitori della II Guerra mondiale, garantendo a queste cinque nazioni il seggio permanente in seno al Consiglio ed il potere di veto, è evidente che per tutelare la pace e la sicurezza collettiva, nessuna di queste cinque potenze deve mettersi di traverso.
Quando due Stati membri permanenti del Consiglio di Sicurezza decidono di sciogliersi dai vincoli fastidiosi del diritto internazionale e di condurre una guerra di aggressione contro un altro Stato membro dell’ONU, occupandone il territorio ed estinguendone la sovranità, l’organo dell’ONU, deputato al mantenimento e ristabilimento della pace, ha delle possibilità quasi nulle di svolgere una azione efficace per favorire una evoluzione della crisi utile per ristabilire la pace e restaurare i diritti violati.
Ciò non toglie che sia importante la partita politica ed istituzionale che si gioca intorno alla “interpretazione” che il Consiglio di Sicurezza. può dare delle travagliate vicende irachene.
Da questa interpretazione, infatti, può venire fuori, tanto una “legittimazione” ex post della guerra e del suo prolungamento attraverso l’occupazione militare, con la inevitabile conseguenza di vincolare ancora di più le relazioni internazionali al ricatto della forza, quanto una “resistenza” della Comunità internazionale ad accettare la politica dei fatti compiuti e ad abbandonare i punti di riferimento del diritto internazionale.
Il travaglio interpretativo del Consiglio di Sicurezza è evidente nelle Risoluzioni che sono state adottate dopo la guerra.
In particolare, con la Risoluzione 1483, adottata il 21 maggio 2003, il Consiglio di Sicurezza, ha evitato accuratamente di spendere una sola parola che legittimasse – a posteriori – il fatto compiuto, ed ha attribuito la qualifica di “Potenze occupanti” agli Stati Uniti e Gran Bretagna, richiamandoli al rispetto delle obbligazioni loro imposte dalle Convenzioni internazionali. Non potendo sanzionare in alcun modo, né la guerra, né la conseguente occupazione militare, la Risoluzione ha messo l’accento sul diritto all’autodeterminazione del popolo iracheno, compreso il controllo della proprie risorse naturali.
Il confronto, in seno al Consiglio di Sicurezza è proseguito ed è sfociato, con la Risoluzione 1511 del 16 ottobre 2003, in una posizione molto più ambigua della precedente.
Con tale Risoluzione il Consiglio ha cercato di “addomesticare” l’occupazione funzionalizzandola ad un programma che avrebbe dovuto portare, con la Cooperazione del Consiglio di Governo installato dagli occupanti, alla ricostruzione di istituzioni politiche statali rappresentative ed in particolare alla redazione di una nuova costituzione ed allo svolgimento di elezioni politiche democratiche sotto l’egida della nuova costituzione.
Proprio in virtù di questa “funzionalizzazione” dell’occupazione militare allo scopo, di ristabilire una capacità di autogoverno del popolo iracheno, la Risoluzione, in uno dei suoi passaggi più contestati, autorizzava le Potenze occupanti a formare una forza militare multinazionale a comando unificato (cioè sotto il comando degli USA), invitando gli Stati membri dell’ONU a collaborare con questa attività, anche attraverso l’invio di contingenti militari.
In realtà l’escamotage della “funzionalizzazione” dell’occupazione allo scopo di ristabilire la sovranità del popolo iracheno sul proprio paese, alla prova dei fatti si è rivelato un espediente dannoso e controproducente.
In questo contesto, il progressivo estendersi della guerriglia, l’indurimento delle azioni militari di contrasto della guerriglia, l’esplosione della pratica generalizzata dalle torture, rendevano indifferibile l’esigenza di una “svolta” da parte delle istituzioni internazionali.
Di qui l’aspettativa che un nuovo intervento del Consiglio di Sicurezza, a fronte di una situazione di crisi per le Potenze occupanti, avrebbe potuto aprire la strada a soluzioni virtuose.
Purtroppo la svolta non c’è stata. Non avendo la forza di cambiare la situazione reale, ancora una volta si è preferito battere la strada del cambiamento immaginario, attraverso una falsa rappresentazione della realtà.
La Risoluzione 1546 formalmente pone fine all’occupazione militare del territorio iracheno, ed il Consiglio di Sicurezza “nota con soddisfazione che entro il 30 giugno l’occupazione avrà termine e l’Autorità provvisoria di coalizione cesserà di esistere e l’Irak ritroverà la sua piena sovranità.”
Se ciò fosse vero, si tratterebbe sicuramente di una svolta di cui tutti dovrebbero essere lieti.
Senonchè le forze militari delle Potenze occupanti rimangono sul territorio iracheno e non cambiano sostanzialmente la loro missione, né i loro poteri. Quello che cambia è il titolo (apparente) della loro presenza, non più forze “occupanti”, ma forze “invitate” da uno Stato “sovrano”, attraverso l’artificio di uno scambio di lettere fra il Governo ad interim, ed il Segretario di Stato americano.
In realtà se c’è una cosa che non può essere fittizia è l’esercizio “sovrano” delle funzioni di Governo. La sovranità non è una scatola vuota: essa si sostanzia nella speciale capacità giuridica di uno stato di esercitare le proprie funzioni in una posizione di indipendenza e di superiorità nei confronti di qualsiasi altro soggetto che si trovi nel suo territorio. Nella situazione irachena della sovranità mancano tutti gli attributi.
Non soltanto per il peccato di origine del Governo ad interim, il cui primo ministro, Ajad Allawi, è stato nominato direttamente dal responsabile politico delle forze d’occupazione, ma perché tale Governo nasce incapace di esercitare le funzioni fondamentali che caratterizzano la sovranità, prima fra tutte il controllo del territorio, al fine di garantire le condizioni di sicurezza imprescindibili per l’esercizio delle altre funzioni politiche ed amministrative, ivi compreso lo svolgimento di elezioni democratiche.
Per quanto possa sembrare paradossale, tale condizione di non sovranità è “certificata” dallo stesso Consiglio di Sicurezza nel momento in cui affida la funzione della sicurezza, non al Governo iracheno sovrano, ma alla “partenership” fra la forza multinazionale e le costituende forze di sicurezza irachene che agiranno, come si dice nelle lettere di Allawi e di Colin Powell, allegate alla risoluzione medesima, attraverso “una stretta consultazione” ed uno “stretto coordinamento”.
Ciò significa che il Governo iracheno non ha (neanche in via meramente formale) nessun potere di interdizione circa le operazioni militari che saranno condotte dalla forza multinazionale, ivi comprese le “operazioni offensive di natura delicata”.
In questa situazione, data la disparità reale delle forze in campo, la consultazione e la collaborazione funzionerà soltanto in una unica direzione, nel senso che la parte più debole, (gli iracheni) dovrà necessariamente collaborare con la parte più forte (gli americani). Infatti, la stessa Risoluzione prevede che il Governo iracheno è “abilitato” ad assegnare una parte delle forze di sicurezza irachene alla forza multinazionale, perché partecipino con quest’ultima alle operazioni militari.
Poiché il nucleo duro della sovranità risiede pur sempre nell’esercizio dei poteri di coercizione, indispensabili per assicurare l’effettività del governo, nella situazione irachena, questo nucleo è stato – anche formalmente – lasciato nelle mani delle Potenze occupanti.
In ogni caso, bisogna dare atto che la stessa Risoluzione, dopo aver proclamato solennemente la “sovranità” del Governo ad interim, riconosce, tuttavia, che il diritto del popolo iracheno di determinare liberamente il suo futuro politico, deve essere ancora attuato, si trova, pertanto, in itinere.
I passaggi fondamentali perché questo itinerario si possa svolgere, dopo la formazione del Governo ad interim, sono:
a) la convocazione di una conferenza nazionale rappresentativa della società irachena nelle sue diversità (da svolgersi nel mese di luglio);
b) lo svolgimento di elezioni democratiche a suffragio universale entro il 31 dicembre 2004, o, al più tardi entro il 31 gennaio 2005, per eleggere una Assemblea nazionale di transizione, che avrà il compito di nominare un Governo di transizione e redigere una Costituzione permanente, per giungere, entro il 31 dicembre 2005, all’installazione di un Governo eletto sulla base della Costituzione.
In quest’ambito troviamo le uniche novità positive della Risoluzione: nell’aver delineato un percorso e posto una scadenza per lo svolgimento di elezioni che, ove si svolgessero in forma veramente democratica, potrebbero costituire un primo passo per l’esercizio della autodeterminazione interna del popolo iracheno.
Nella Risoluzione si avverte, tuttavia, l’eco della preoccupazione che la situazione attuale possa rendere impossibile il passaggio elettorale, se non si perviene prima ad una pacificazione ed all’accettazione della fase di transizione da parte di tutte le componenti della società irachena. Di qui la necessità della convocazione di una conferenza nazionale rappresentativa e l’esigenza dell’ingerenza dell’ONU a garanzia del corretto svolgimento del processo elettorale.
Tuttavia la Risoluzione non determina alcun fatto nuovo sul terreno della pacificazione. Anzi, a questo riguardo, occorre tenere presente il tenore delle lettere scambiate fra il Segretario di Stato Powell e il Primo Ministro Ajad Allawi.
Nella lettera di Powell, in particolare, si dice, a chiare lettere che nel paese è in atto una insurrezione, condotta da elementi del passato regime, combattenti stranieri e milizie illegali. Per neutralizzare queste forze, secondo Colin Powell, sono necessarie “operazioni di combattimento” contro i membri di questi gruppi ed il loro internamento, se necessario. Ciò significa che le Forze armate americane prevedono di continuare le operazioni di controguerriglia, ivi compreso la cattura e l’internamento dei presunti guerriglieri, e ce lo mandano a dire attraverso una Risoluzione del Consiglio di Sicurezza.
Orbene è evidente che se si vuole avviare un processo di ricostruzione di uno Stato disastrato dalla guerra, attraverso la ricostruzione di istituzioni democratiche rappresentative, è indispensabile trovare un accordo fra tutte le componenti che sono coinvolte nel conflitto e garantire a tutti le condizioni di agibilità politica del processo elettorale, in situazione di eguaglianza. Altrimenti lo stesso processo elettorale, lungi dal risolvere il conflitto, lo renderà più acuto. Da questo punto di vista la Risoluzione non fornisce alcuna garanzia.