E’ passata quasi inosservata l’approvazione, da parte del Senato, lo scorso 18 novembre, di un ambizioso progetto governativo di riforma delle leggi penali e della giurisdizione militare. Nel panorama desolato di leggi o di progetti di legge che demoliscono gli assi portanti dell’intero edificio costituzionale, come avviene con il progetto di riforma della II parte della Costituzione, la riforma dei codici e della giurisdizione militare può sembrare questione di secondaria importanza, da relegare nel dibattito fra gli specialisti della materia.
Ed invece, attraverso questo disegno di riforma, vengono in luce questioni peculiari, che attengono all’adattamento dell’ordinamento giuridico italiano al tempo della guerra infinita, con tutte le ricadute negative che ciò comporta in termini di salvaguardia della pace, dei diritti e delle libertà.
Occorre premettere che la partecipazione italiana ad avventure belliche, è interdetta dall’art. 11 della Costituzione italiana, principio fondamentale dell’ordinamento, che tuttavia è tutelato essenzialmente da garanzie politiche, superabili da una maggioranza che, non condividendo i valori della Costituzione, abbia il controllo egemonico dei mezzi di comunicazione. Quello che rende realmente problematica la partecipazione italiana ad operazioni belliche all’estero è la carenza di un quadro normativo adeguato.
L’arsenale normativo dei codici penali militari di pace e di guerra (entrambi approvati con Regio Decreto del 20 febbraio 1941) e dell’ordinamento giudiziario militare (approvato con Regio Decreto del 9 settembre 1941), infatti, risale ad un’altra epoca storica, contiene norme e principi palesemente inutilizzabili, e strumenti, come i Tribunali militari di guerra, che non possono essere riesumati, in quanto seppelliti per sempre dalla Costituzione, assieme ad altre barbarie del precedente regime.
Quando dopo l’89 è iniziato l’attivismo delle missioni militari italiane all’estero, è balzato subito agli occhi che lo strumento del Codice penale militare di guerra, (nel quale sino al 1994 vigeva ancora la pena di morte) non poteva essere adoperato. Ed infatti nelle varie leggi e leggine che hanno finanziato le missioni in Somalia, in Bosnia e nel Kossovo è sempre stata inserita una norma che prevedeva l’applicazione del Codice Penale Militare di Pace, in deroga all’art. 9 del Codice Penale Militare di guerra, che dispone l’applicazione automatica della legge di guerra ai corpi di spedizione all’estero. E tuttavia l’intensificarsi delle missioni e l’accentuarsi del loro carattere, almeno potenzialmente belligerante, creava dei problemi di vario genere – ivi compreso quello della protezione del personale impegnato nelle missioni e quello della perseguibilità dei crimini di guerra – che non potevano essere risolti dal codice penale militare di pace. Da qui è iniziato un processo di riforma, mirante a “restaurare” il Codice penale militare di guerra, per rendere la legge marziale pienamente utilizzabile. Con il decreto legge 1° dicembre 2001, recante disposizioni urgenti per la partecipazione dei militari italiani all’operazione “Enduring Freedom” in Afganistan, per la prima volta è stato riesumata la legge di guerra, ma non sono stati resuscitate le disposizioni processuali, prevedendosi l’utilizzazione della giurisdizione militare per il tempo di pace, con una specifica competenza attribuita al Tribunale militare di Roma. Nella legge di conversione del decreto legge (L. 31 gennaio 2002 n. 6) è confluita una miniriforma del codice di guerra, che ha cancellato alcune disposizioni abnormi come quella che consentiva, in circostanze particolari, l’esecuzione immediata delle spie (art. 183) o il potere del Comandante Supremo di legiferare emanando bandi militari (art. 17), ed ha soppresso la condizione di reciprocità che impediva la punibilità dei reati contro le leggi e gli usi di guerra, se commessi dai militari italiani (sostituendo l’art. 165).
In seguito, per rendere le leggi di guerra più digeribili, un’altra novella (attuata con la L. 18 marzo 2003 n. 42) ha cancellato alcune delle norme più incostituzionali, come il divieto di pubblicazione di scritti polemici (art. 80) o la denigrazione della guerra (art. 87).
Si è giunti così al disegno di riforma complessiva della materia presentato, lo scorso anno, al Senato dai ministri Martino e Castelli. La legge delega introduce un disegno di riforma ambizioso che mira ad una profonda riscrittura dei codici penali militari di pace e di guerra ed introduce incisive modifiche nell’ordinamento giudiziario militare. Due sono le linee guida che orientano l’intero progetto: la prima è l’esigenza di mantenere in vita l’asfittica giurisdizione militare (che è stata abolita in tutti i paesi della NATO ad eccezione della Turchia); la seconda è l’esigenza di abbassare la soglia fra pace e guerra, riesumando le leggi di guerra e rendendole pienamente utilizzabili ed automaticamente instaurabili. All’interno di queste due esigenze che si muovono entrambe nella prospettiva di decostituzionalizzare l’art. 11 della Costituzione, si colloca l’orientamento di confermare, se non addirittura di ripristinare le norme più dure in tema di disciplina militare.
Il Disegno di legge è stato approvato dal Senato con delle modifiche che hanno limato gli aspetti più inaccettabili del progetto. Non è stato modificato però l’impianto, che prevede, in sostanza, la piena applicabilità della legge marziale con il ricorso ad alcuni accorgimenti giurisdizionali, che si sostanziano – in pratica – nell’utilizzo della giurisdizione militare prevista per il tempo di pace, salvo la riesumazione del Tribunale Supremo militare di guerra, come organo di vertice della giurisdizione.
In questo contesto, la Delega prevede che il Governo debba “confermare l’applicazione della sola legge penale militare di guerra, ancorchè nello stato di pace, ai corpi di spedizione all’estero per operazioni militari armate..” (art. 4, comma 1, lett. d). Un’altra norma (art. 4, comma 1, lett. m), n. 1) prevede la “sottoposizione alla giurisdizione penale militare anche di chiunque commetta un reato contro le leggi e gli usi della guerra o comunque un reato militare a danno dello stato o di cittadini italiani, ovvero nel territorio estero sottoposto al controllo delle forze armate italiane nell’ambito di una operazione militare armata.“
La legge quindi introduce una rilevante novità rispetto alla situazione attuale. Com’è noto al contingente militare italiano che opera in Iraq ed in Afganistan si applica il Codice Penale Militare di Guerra, com’è previsto dai numerosi decreti legge che hanno autorizzato l’invio delle truppe e prorogato la loro missione, ma non si applica ad altri soggetti.
Con la riforma, quando un corpo armato italiano viene inviato all’estero, nel territorio sottoposto al controllo delle forze armate italiane (ad es. Nassiriya), la legge marziale e la giurisdizione militare si applica a tutti, ivi compresi i volontari in missione umanitaria ed i giornalisti, in barba all’art. 103 della Costituzione che prevede che, in tempo di pace, i civili non possano essere assoggettati alla giurisdizione dei Tribunali militari. In questo contesto la principale vittima della militarizzazione e della possibilità di introdurre la legge marziale, à la carte, è proprio la libertà di informazione. Infatti la legge delega non ha revisionato gli articoli 72, 73, 74 e 75 del Codice di guerra, in virtù dei quali non si può diffondere alcuna informazione sugli avvenimenti che non sia autorizzata dalle autorità militari. Per esempio non si può comunicare neppure il numero dei morti o dei feriti, se non si viene autorizzati dal Governo o dalle autorità militari. Questo non significa che viene cancellata la libertà di stampa: i giornalisti saranno assolutamente liberi di divulgare la verità ufficiale, stabilita dalle autorità competenti.