E’ passata una settimana da quando Stefano Rodotà ci ha lasciato. E’ stata profondissima l’emozione che ha colpito, nei vari ambienti, tutte le persone che hanno avuto il privilegio di incontrare nel loro percorso di vita l’insegnamento, la passione, l’intelligenza, l’umanità viva di quest’uomo che si staglia come un gigante: Gulliver, nel paese dei lillipuziani.
Stefano Rodotà era un maestro di diritto, ma – per tanti di noi – è stato anche un maestro di vita.
Nella cerimonia funebre che si è svolta alla Sapienza il 26 giugno sono stati ricordati i titoli accademici, la vastità e profondità del suo sapere che non conosceva confini. Ma non è questo il punto. La grandezza di Rodotà, la cifra della sua identità stava nella capacità di mettere la sua sterminata conoscenza a servizio dell’uomo, anzi di intraprendere sempre nuovi percorsi di conoscenza, profondamente radicati nel suo impegno sociale. Lo stesso “moralismo” di cui ha fatto l’elogio, ha indotto Rodotà a concepire il suo ruolo come protagonista attivo della eterna lotta del diritto per dare dignità alle persone concrete, per migliorare la qualità della vita e delle istituzioni democratiche. Un giurista dalla parte dell’umanità, che trasforma la scienza in sapienza.
Rodotà ha sempre varcato i confini che l’accademia poneva alla scienza giuridica, alla ricerca della radice dell’umano. A volte attestandosi sul confine tra le due discipline: un luogo magico d’incontro. Solo da lì – dal confine – si possono trovare le regole che danno fondamento alla vita, solo lì si può riuscire a dare voce ai diritti anche delle sfere più intime. Come ha osservato Gaetano Azzariti: “È da una linea di frontiera che Rodotà è riuscito ad indagare il “diritto d’amore” (Laterza, 2014). Credo che nessuno con altrettanta delicatezza abbia saputo affrontare un tema così scivoloso per un giurista, ricordando a noi tutti che prima della legge, delle sentenze, della dottrina c’è qualcosa di ben più importante, un vero diritto inviolabile: quello ad amare. Prima delle regole c’è la vita aveva spiegato in un altro libro del 2006. La centralità della persona, il rispetto della sua dignità sono stati i fari con cui ha illuminato territori sino ad allora sconosciuti. Solo un’attenzione alle concrete modalità di svolgimento della vita poteva portare Rodotà a sostenere con radicalità e rigore le ragioni del biotestamento. Un testamento che riassegna all’umano la scelta sulla propria esistenza e non si limita a regolare i beni, la proprietà, la morte delle persone.”
E’ stata proprio la sua sapienza, unita all’amore per l’umano, a guidare il suo impegno civile che lo ha portato a calarsi nella lotta politica e ad agire in difesa coerente della sua visione della democrazia. Il suo impegno istituzionale più rilevante ha lasciato una traccia indelebile nella storia del costituzionalismo non solo italiano, ma europeo. La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, porta la sua firma ed è stata elaborata dalla Convenzione che lo ha visto autorevole protagonista. Essa rappresenta il catalogo più ampio mai scritto dei diritti e il più impegnato tentativo di far mutare rotta all’Europa. Subito dopo la sua approvazione, a Nizza nel 2000, Rodotà ha ingaggiato una lunga lotta per far conquistare alla Carta un valore giuridico e non solo politico. Con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, che ha conferito alla Carta dei diritti lo stesso valore giuridico dei Trattati, qualcuno ha potuto ritenere che la battaglia fosse stata vinta. Non Rodotà, che, invece, ha denunciato, con disappunto, che l’Europa “ha voltato le spalle alla Carta”.
Quella che rende assolutamente straordinaria l’avventura umana di Stefano Rodotà è la vicenda di un intellettuale che ha assunto un ruolo politico per testimoniare la verità nei Palazzi delle Istituzioni. E ciò ha fatto spinto dall’amore per l’umano, perché è attraverso la politica e le istituzioni che si costruisce la felicità o l’infelicità nei destini individuali e collettivi. Per questo da quei palazzi è stato esiliato ed era scritto che non sarebbe mai diventato Presidente della Repubblica. Ma è stato proprio l’amore per la Repubblica, per i suoi principi di eguaglianza, giustizia, libertà, pluralismo e laicità che lo ha spinto ad impegnarsi – malgrado la malattia che lo affliggeva – nell’ultima e decisiva battaglia politica per salvare la democrazia costituzionale nel nostro paese dalla riforma “turca” di Renzi.
Anche questo è amore.