“Il coraggio se uno non c’e l’ha non se lo può dare”. Cosi ragionava il povero don Abbondio, ignorando che la sua filosofia della vita avrebbe fatto breccia nel costume nazionale ed avrebbe aperto nuove strade al diritto. La sentenza della Corte d’Assise di Roma che ha posto termine al processo per l’omicidio di Nicola Calipari ed il ferimento di Giuliana Sgrena prima ancora che cominciasse, ha suscitato reazioni vivaci. Non solo di sdegno e di dolore, ma anche beffarde ed irriverenti, come quelle dell’ex imputato, Mario Lozano, che ha avuto il buon gusto di ribadire che la colpa di tutto quanto è successo in quella piovosa serata del marzo 2005 non è sua, ma di Giuliana Sgrena che si è fatta rapire per essersi impicciata troppo dei fatti altrui.
Però non sono venuti fuori commenti od analisi sulla fondatezza giuridica di questa provvidenziale sentenza che ha salvato l’onore del Dipartimento di Stato che, com’è noto, non può accettare la mortificazione che i militari delle sue potenti forze armate siano sottoposti alla giurisdizione di altri Stati.
Infatti quando altri giudici italiani hanno preteso di sottoporre a processo i gloriosi GMen della CIA che, come angeli del bene, ci proteggono dal terrorismo islamico nel nostro paese, facendo sparire i terroristi, come hanno fatto con Abu Omar, dall’altra sponda dell’atlantico non l’hanno presa per niente con fair play. Tant’è vero che l’organo ufficioso delle CIA nel mondo della carta stampata, il Wall Street Journal, ha pubblicato un articolo-editto il 26 febbraio 2007 nel quale si contestava il potere dell’autorità giudiziaria italiana di procedere contro gli agenti della CIA e scagliava una “fatwa” contro il P.M. Armando Spataro, definendolo “magistrato canaglia”.
E’ ben vero che l’anatema non ha avuto effetto sul diretto interessato, però è sempre valido il detto: “colpiscine uno per educarne cento.”
A nessuno dei nostri colleghi piace diventare “un magistrato canaglia” agli occhi di quelle organizzazioni che possono adottare misure appropriate per sbarazzarsi delle canaglie. Così, un po’ alla volta, anche i giudici italiani, liberandosi dal mito sconveniente dell’indipendenza, si stanno educando a rispettare le regole dell’impero.
Per tornare alla fondatezza giuridica della sentenza della Corte d’Assise, si potrà dare un giudizio approfondito soltanto dopo aver letto le motivazioni. Per adesso bisogna limitarsi alle prime impressioni sulla base di quanto riportato dalle agenzie. Se le notizie riportate sono esatte, la pronunzia di difetto di giurisdizione si fonderebbe sul rilievo che avrebbe nel nostro ordinamento una risoluzione del Consiglio di Sicurezza.
Si tratta della Risoluzione 1546 adottata l’8 giugno 2004, con la quale il Consiglio di Sicurezza ha restaurato la sovranità dell’Irak, riconoscendo al Governo provvisorio la sovranità sul paese, a partire dal 30 giugno 2004. Nella Risoluzione il Consiglio di Sicurezza ha autorizzato – bontà sua – le forze della Coalizione internazionale sotto il comando unificato (degli Stati Uniti) a restare nel paese, “tenuto conto delle lettere annesse alla risoluzione.” Le lettere sono uno scambio epistolare fra il Capo del Governo interinale, Ayad Allawi ed il Segretario di Stato americano, Colin Powell, in cui viene stabilito che vi deve essere una forte cooperazione ed integrazione fra le forze armate irachene e quelle della coalizione. Gli iracheni hanno dato seguito a tali impegni, stipulando degli accordi successivi in cui viene riconosciuto il c.d. “privilegio della giurisdizione” allo Stato d’origine.
Ora si da il caso che le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza sono atti internazionali che fanno sorgere negli Stati membri l’obbligo di conformarsi, in base alle relative procedure costituzionali, ma non hanno alcuna efficacia diretta negli ordinamenti nazionali. L’Italia normalmente dà esecuzione agli obblighi internazionali nascenti dalle risoluzione del Consiglio di Sicurezza con provvedimenti aventi forza di legge. Ovviamente noi non abbiamo mai adottato alcun provvedimento legislativo che riconosca agli Stati Uniti, il privilegio di giurisdizione (come avviene in ambito NATO con il trattato di Londra del 19/6/1951) rispetto ai reati commessi in nostro danno dai militari americani in territorio iracheno. Una forma di servilismo così paradossale nemmeno la spericolata fantasia giuridica della Casa della Libertà è riuscita a partorirla. Meno male che adesso ci hanno pensato i giudici a colmare questo vuoto giuridico per via di interpretazione.
Se le cose stanno così, vuol dire che la pronunzia della Corte d’Assise è fondata su un principio di diritto incontestabile: “il
coraggio se uno non ce l’ha, non se lo può dare.