1. Una nuova guerra fredda?
C’è voluto il duro monito lanciato da Putin alla Nato nel suo annuale discorso alla Duma sullo “stato della Federazione”, il 26 aprile 2007, per squarciare il velo che nascondeva la politica di riarmo e di rinnovato confronto militare con la Russia che da molti anni gli Stati Uniti stanno costruendo in Europa, con la complicità delle classi dirigenti, ed al riparo da ogni ingerenza dei Parlamenti e dell’opinione pubblica.
L’attacco di Putin, che ha nettamente superato per durezza quello scagliato a febbraio, quando aveva parlato di “ripresa della guerra fredda” ha avuto come obiettivo principale l’impianto di un nuovo sistema antimissile progettato dagli USA, che prevede l’installazione di una serie di missili intercettori in Polonia e l’istallazione di un sofisticato sistema radar nella Repubblica Ceca, ma riguarda, nel suo complesso, tutta la politica di espansione della minaccia militare nei confronti della Russia, attuata mediante l’allargamento della NATO ai Paesi dell’ex Patto di Varsavia ed ai paesi fuoriusciti dalla dissoluzione dell’ex Unione Sovietica, come Estonia, Lettonia e Lituania.
Essendo fallito ogni tentativo di mediazione e di dialogo fra le due parti, Putin ha usato l’unica arma in suo possesso, quella di rilanciare sul terreno della minaccia militare, annunziando la sospensione per un anno del trattato CFE, sulla limitazione della forze convenzionali in Europa (stipulato nel novembre 1990 e mai ratificato dai Paesi della NATO), e preavvisando il ritiro della Russia dal Trattato, qualora non sia raggiunto un accordo entro un anno.
Insomma Putin non poteva dirlo più chiaro di così. Alla crescente pressione militare della NATO nei suoi confronti, la Russia risponderà, come si usava durante la guerra fredda, con ritorsioni sullo stesso terreno, incrementando il potenziale di minaccia militare.
La posizione di Putin è stata formalmente ribadita dal Ministro degli esteri della Russia, Sergej Lavrov, lo stesso giorno, alla riunione di Oslo del Consiglio di cooperazione NATO-Russia, riunitosi a margine dell’incontro informale dei Ministri degli esteri della NATO del 26/27 aprile.
Guardando le cose in prospettiva, se l’inizio della I guerra fredda si può far risalire al famoso discorso di Churchill a Fulton (Missouri) del 5 marzo 1946, dal discorso di Putin del 26 aprile 2007, potrebbe partire l’inizio di una seconda guerra fredda, se non ci saranno dei sostanziali cambiamenti di rotta.
Poiché la politica, a spinta americana, di ripresa del confronto militare con la Russia è stata portata avanti nella massima opacità ed al riparto da ogni forma di partecipazione politica, le reazioni all’uscita di Putin, sono state di imbarazzo, di incredulità, se non addirittura di scherno, con modulazioni differenti, a secondo dei punti di vista.
2. Lo stupore degli americani e l’equilibrismo degli italiani.
Se nella stizzita reazione del Segretario di Stato americano Condoleeza Rice, che ha definito “ridicola” l’opposizione russa alla realizzazione in Europa del terzo sito per lo scudo spaziale americano, è prevalsa una apparente incredulità, molto più imbarazzata è stata la reazione del Ministro degli esteri italiano.
Nella reazione russa all’iniziativa americana ci sono «elementi di esagerazione», ha dichiarato Massimo D’Alema al termine del vertice informale dei ministri degli Esteri Nato. (cfr Il Corriere della Sera e La stampa del 28/4/2007) Il capo della nostra diplomazia considera «un errore» la moratoria decisa da Mosca sul trattato che regola le forze convenzionali in Europa (Cfe), e ritiene che dietro le dure parole di Putin ci siano soprattutto ragioni politiche e «motivazioni interne» (a fine anno ci saranno le elezioni politiche in Russia, seguite dalle presidenziali). Secondo D’Alema, la situazione non va drammatizzata, dunque: anche perché la realizzazione del sistema americano richiederebbe comunque alcuni anni, e c’è tempo sufficiente per riannodare le fila del dialogo. Il ministro italiano è convinto che per «rimuovere le incomprensioni con la Russia» sia molto importante il ruolo dell’Europa: perché, lascia intendere, finora gli americani hanno commesso molti errori con Mosca. Le discussioni sul sistema antimissile (esagerato definirlo scudo spaziale, secondo il ministro, «sarebbe come confondere la Sanbenedettese con il Manchester») «sono partite male» perché «poste in un ambito bilaterale» dagli Stati Uniti. Ma l’Italia ritiene che la presenza di un sistema anti missile in Europa – l’obiettivo dichiarato di Washington è la difesa da potenziali attacchi da parte di Iran e altri «stati canaglia» – non sia una minaccia per la Russia. Roma è dunque interessata a partecipare alla sua realizzazione dal punto di vista industriale. Condizione indispensabile è tuttavia il superamento delle incomprensioni con la Russia: «Il sistema di difesa è auspicabile, ma va realizzato in modo da non apparire ostile nei suoi confronti».
Se questo è il quadro, «compito dell’ Europa» è, appunto, quello di «smussare gli angoli» e di arrivare, aggiunge D’ Alema, a «formulare progetti di difesa condivisi, perché se non è questo, non si capisce quale sia il compito fondamentale della Nato».
Il discorso di D’Alema è un capolavoro di equilibrismo e di finzioni. Il nostro Ministro degli esteri apparentemente bacchetta gli Stati Uniti: “hanno agito in ambito bilaterale”, vale a dire mediante accordi con alcuni paesi europei (la Polonia, la Repubblica Ceca e – come vedremo l’Italia), by-passando la NATO ed il Consiglio di Cooperazione NATO – Russia, ma in realtà sostiene il progetto dell’installazione del sistema antimissile in Europa: “il sistema di difesa è auspicabile”. Tuttavia per realizzarlo sarebbe indispensabile superare l’opposizione (le incomprensioni) della Russia. Infine attribuisce all’Europa il compito di “smussare gli angoli” nel confronti strategico-militare fra USA e Russia.
Leggendo il discorso del Ministro D’Alema si potrebbe pensare che l’Italia sia impegnata a “smussare gli angoli”, invece è vero tutto il contrario. Il nostro paese ha lavorato – segretamente – per rendere quegli angoli più rigidi e più acuti.
Quando D’Alema critica il metodo bilaterale usato dagli USA, potrebbe sembrare che l’Italia sia contraria o si sia opposta a quel metodo, invece è vero tutto il contrario. Il nostro paese ha stipulato – segretamente – un’intesa bilaterale con gli Stati Uniti per cooperare alla realizzazione del sistema di difesa antimissile in Europa, ben sapendo che nell’ambito NATO molti paesi europei erano e sono tuttora contrari ad installare in Europa il terzo sito dello scudo antimissile americano, proprio perché si tratta di un’azione ostile nei confronti della Russia, foriera di sviluppi negativi per la sicurezza del continente. Fra le righe della sua dichiarazione D’Alema ammette – senza riconoscerlo apertamente – che l’Italia sta cooperando al progetto antimissile: “Roma è interessata alla sua realizzazione dal punto di vista industriale” anche se cerca di “depoliticizzare” la cooperazione dell’Italia, riducendola ad una questione di politica industriale, non di politica estera o di sicurezza.
In realtà la “cooperazione tecnologica” alla realizzazione dello scudo spaziale è un modo per rendere sostanziale e potenzialmente irreversibile la cooperazione politica al progetto e di partecipare al suo finanziamento. Quindi non si tratta di politica industriale, ma di una scelta, della massima rilevanza, in tema di politica estera e di relazioni internazionali.
Come una scelta di massima rilevanza è stata la denunzia da parte del Presidente Bush, il 13 giugno 2002, del trattato ABM. E’ noto che il Trattato Anti Missili Balistici (in sigla ABM Treaty), firmato da USA ed URSS nel 1972 aveva lo scopo di limitare la possibilità della difesa antimissile delle due parti, in modo da scoraggiare l’uso offensivo delle armi nucleari. In questo senso, il Trattato faceva parte di quella misure che tendevano ad assicurare l’equilibrio fra le due superpotenze, assicurando che nessuna parte potesse prevalere sull’altra. La denunzia del Trattato da parte della I presidenza Bush, che ha recuperato l’Iniziativa di Difesa Strategica, (SDI, conosciuta anche come “guerre stellari”) lanciata da Ronald Reagan nella fase ultima e più acuta della guerra fredda, ha rappresentato un punto di svolta nelle relazioni internazionali, riaprendo una fase di confronto militare che la fine della guerra fredda aveva interrotto (o attenuato) nell’arco di un decennio.
Recentemente l’Italia, andando in controtendenza rispetto alle esigenze dell’Europa (che – come ha riconosciuto il ministro D’Alema dovrebbe smussare gli angoli) ha deciso di salire sul carro dello scudo spaziale e di lavorare per l’istallazione di un sito europeo, coordinato con quelli già installati in Alaska ed in California.
3. L’adesione dell’Italia allo scudo spaziale.
Se il diavolo non ci avesse messo lo zampino, la stipula di un accordo “tecnico” fra Roma e Washington per la “condivisione di tecnologie di difesa missilistica, analisi ed altre forme di collaborazione”, con il quale l’Italia si è arruolata nel programma di scudo antimissili che gli Stati Uniti vogliono estendere all’Europa, avrebbe potuto rimanere per lungo tempo, o forse per sempre, avvolta nel segreto. Purtroppo è accaduto che la notizia sia stata fatta filtrare dalla cortina di segreto che l’avvolgeva ed è stata ripresa dall’Unità (30 marzo 2007), che ha attribuito al Ministro Parisi il merito di aver stipulato l’accordo nel corso della sua visita negli USA a metà dicembre 2006. Del resto il silenzio sulla notizia non si poteva mantenere oltre perché gli americani l’avevano spiattellata qualche giorno prima. In proposito il Manifesto del 1° aprile ha riportato le dichiarazioni rese, il 27 marzo, di fronte ad un Comitato della Camera dei Rappresentanti, dal generale Henry Obering III, Direttore dell’Agenzia degli Stati Uniti di difesa missilistica. Secondo le dichiarazioni del generale Obering III, il memorandum d’intesa con l’Italia sarebbe stato siglato nel mese di febbraio 2007. Quindi è probabile che il merito della firma non spetti al Ministro Parisi, come riportato dall’Unità, ma al sottosegretario Forcieri che il 7 febbraio si è recato a Washington per firmare un altro memorandum d’intesa per la partecipazione dell’Italia al programma del caccia statunitense F-35 Lightning. Infine, il 12 aprile 2007, rispondendo ad una interpellanza dell’on. Deiana, il Governo, per bocca del sottosegretario alla Difesa Marco Verzaschi, ha riconosciuto – obtorto collo – che l’Italia ha stipulato un accordo con gli USA per cooperare al programma di difesa missilistica ed alla sua estensione in Europa.
Dalle sibilline dichiarazioni del Sottosegretario alla Difesa non è dato di conoscere, né quale autorità politica abbia apposto la firma per l’Italia, né la data in cui il memorandum è stato firmato. Quel che è stupefacente è che una scelta di così grande spessore politico, quale la partecipazione dell’Italia alle c.d. “guerre stellari”, sia stata compiuta in modo tanto segreto e clandestino da restare occulta persino nell’organo di Governo. E’ evidente infatti che il memorandum d’intesa con gli Stati Uniti non è stato portato al Consiglio dei Ministri, organo a cui spetta di determinare la politica generale del Governo. Non a caso la legge prevede che: sono sottoposti alla deliberazione del consiglio dei ministri: (..) h) le linee di indirizzo in tema di politica internazionale e comunitaria e i progetti dei trattati e degli accordi internazionali, comunque denominati, di natura politica o militare.” (art. 2 L.23/8/1988 n. 400).
4. Se la politica diviene segreta. L’autoderminazione dell’Italia e quella dell’Europa.
Questa vicenda conferma che il secondo Governo Prodi non ha fatto nulla per sconfessare una delle più deprecabili prassi politiche che hanno avvilito le istituzioni e mortificato la democrazia nel nostro paese: quella della politica e della diplomazia segreta.
In origine le esigenze della guerra fredda hanno creato, nel settore della politica estera e militare, un cono d’ombra, una zona franca dai meccanismi dello Stato di diritto, all’interno della quale sono state costruite politiche, ed addirittura pezzi di istituzioni, destinati a restare segreti o occulti. Si pensi alla vicenda di Gladio, cioè alla creazione di un esercito clandestino con una spiccata vocazione anticomunista, nato da un accordo stipulato segretamente fra il Sifar ed il servizio segreto americano il 26 novembre 1956. All’interno di questo cono d’ombra, sono state compiute scelte politiche destinate ad avere riflessi politici duraturi nella vita del nostro paese ed a creare dei fatti compiuti, destinati a vincolare le scelte politiche future. La fine della guerra non ha messo fine a questa prassi degenerativa che si è conservata nel tempo.
Pertanto dobbiamo constatare, con amarezza che esiste ancora un livello clandestino di decisione politica, che rimane occulto persino all’interno dell’organo di Governo, sebbene le scelte assunte, una volta attuate con accordi internazionali, siano pienamente vincolanti per il nostro paese e destinate a limitare la libertà della nostra autodeterminazione politica.
Quello che è più preoccupante è che il vincolo all’autodeterminazione del nostro paese incide sull’autodeterminazione dell’Europa ed espropria l’Unione Europea dalla possibilità di articolare una propria politica nei confronti della Russia, autonoma rispetto alle scelte compiute dagli USA.
Che si tratti di una questione che riguarda anche l’Unione Europea è lo stesso sottosegretario Verzaschi a riconoscerlo nelle dichiarazioni rese al Parlamento, laddove testualmente afferma: “ nuovi programmi sono suscettibili di alterare equilibri strategici consolidati, in particolare con la Russia. Conseguentemente, il ministro degli affari esteri, onorevole D’Alema, unitamente a esponenti di altri paesi partner, tra i quali il primo ministro tedesco Merkel, hanno convenuto sull’opportunità che tale materia sia affrontata in ambito NATO, anche nel formato Consiglio NATO-Russia, così come anche nella dimensione dell’Unione europea.”
Peccato che, a fronte dei fatti compiuti e della posizione assunta dalla Polonia e dalla Repubblica Ceca, a cui si è accodata l’Italia (non sappiamo quali altri paesi) per l’Unione sarebbe difficile adottare una posizione comune o stabilire una azione comune per evitare che il suo territorio venga utilizzato per iniziative destinate ad alterare gli equilibri strategici e a promuovere o rilanciare il confronto militare con la Russia.
Del resto, nel campo della Politica estera e di Sicurezza Comune, che costituisce il c.d. secondo pilastro dell’Unione Europea, l’art. 11 del TUE prevede che “gli Stati membri operano congiuntamente per rafforzare e sviluppare la loro reciproca solidarietà politica. Essi si astengono da qualsiasi azione contraria agli interessi dell’Unione o tale da nuocere alla sua efficacia come elemento di coesione nelle relazioni internazionali. “
Se l’Europa deve partecipare al discusso progetto dello scudo spaziale americano ed addirittura prestare il suo territorio per l’installazione di missili ed apparati di sorveglianza elettronica, è questione che inevitabilmente incide sugli interessi dell’Unione e sulla sua politica estera e di sicurezza comune. Come tutte le grosse questioni internazionali, essa incide sulla identità degli attori che ne sono coinvolti ed in particolare sull’identità dell’Europa nello scenario internazionale.
Pertanto se alcuni Stati si accordano con gli Stati Uniti per estendere all’Europa ed installare in Europa alcune componenti del progettato scudo spaziale americano, al di fuori delle istituzioni europee, essi pregiudicano l’identità dell’Europa nelle relazioni internazionali, senza che né il Consiglio, né la Commissione, né – tantomeno – il Parlamento Europeo possano avere la possibilità di interloquire.
5. Il difficile percorso della costruzione di un’identità europea.
Del resto il processo di costruzione di una identità europea è stato, assieme all’euro, l’obiettivo politico più ambizioso che si è data l’Europa comunitaria, uscendo dalla paralisi della guerra fredda all’inizio degli anni 90. Con il Trattato di Maastricht, la Comunità ha allargato le proprie competenze e si è trasformata in Unione, con l’invenzione dei due pilastri (in realtà spazi di cooperazione intergovernativa) della Politica Estera e di Sicurezza Comune (PESC) e della cooperazione in materia di Giustizia e Affari Interni (GAI).
Fra gli scopi principali che l’Unione si proponeva, vi era quello di “affermare la sua identità sulla scena internazionale, in particolare mediante l’attuazione di una politica estera e di sicurezza comune, ivi compresa la definizione progressiva di una politica di difesa comune che potrebbe condurre ad una difesa comune.” (art. 2 TUE).
Senonchè l’affermazione di una identità dell’Europa nello scenario internazionale è questione destinata ad incontrarsi e fatalmente a scontrarsi con gli orientamenti strategici dell’alleato americano. All’ombra del grande fratello d’oltreatlantico, l’identità dell’Europa stenta ad affermarsi, anzi viene percepita come una anomalia da contrastare.
E’ noto che, fin dall’origine gli USA sono stati contrari allo sviluppo di una difesa europea “autonoma” dagli Stati Uniti.
A questo riguardo è d’obbligo richiamare il documento strategico pubblicato dal New York Times l’8 marzo 1992, Defence planning guidance for the fiscal years 1994-1999, redatto da un Comitato interministeriale presieduto dall’allora sottosegretario alla Difesa M. Paul D. Wolfowitz (che in seguito sotto l’Amministrazione Bush figlio avrebbe ricoperto di nuovo l’incarico di Sottosegretario alla Difesa), nel quale veniva scritto testualmente: “dobbiamo agire in vista di impedire l’emergere di un sistema di difesa esclusivamente europeo, che potrebbe destabilizzare la NATO.” (Tale inciso fu eliminato nella versione più edulcorata che – in seguito – fu resa pubblica).
Col trattato di Maastricht (art. J, par. 7, ora art. 17 TUE) le preoccupazioni americane sono state pienamente accolte. Così la nascente politica di sicurezza europea è stata inserita nella camicia di forza della NATO poiché è stato previsto, non solo che essa deve rispettare “gli obblighi derivanti per alcuni Stati membri dal Trattato dell’Atlantico del Nord”, ma che deve essere “compatibile con la politica di sicurezza e difesa comune adottata in tale contesto (cioè nell’ambito NATO).
In questo modo l’identità dell’Europa, almeno per quanto riguarda la politica di sicurezza e difesa (che purtroppo assorbe alcune delle questioni più rilevanti della politica internazionale), è stata subordinata all’identità della NATO, organizzazione tradizionalmente sottoposta (per ragioni militari, economiche e strategiche che non possiamo stare qui ad esaminare) all’egemonia degli Stati Uniti
Del resto ciò, in un certo senso era inevitabile perché non si possono fare due politiche differenti nello stesso settore attraverso due differenti sistemi istituzionali (quali sono appunto la NATO e l’Unione Europea).
Questi due sistemi dovevano necessariamente essere messi in relazione. Peccato, però, che a nessuno sia venuto in mente che il criterio di collegamento poteva essere quello contrario: che gli Stati membri non dovevano sviluppare nel contesto della NATO politiche di sicurezza incompatibili con quelle sviluppate dalla Istituzioni europee in sede di PESC.
6. Il conflitto nei Balcani, banco di prova per l’Europa.
Purtroppo la sfida sull’identità europea è proseguita, anche dopo Maastricht e si è incentrata su una serie di vicende attraverso le quali si è sviluppata – a volte in modo drammatico – l’attitudine degli Stati Uniti, a cancellare o a ridimensionare tanto il protagonismo, quanto l’identità stessa dell’Europa nello scenario delle relazioni internazionali.
Il banco di prova più duro per l’identità della nascente Unione Europea è stato il terribile, lungo e penoso conflitto dei Balcani, iniziato il 25 giugno 1991, con la proclamazione d’indipendenza di Slovenia e Croazia e non ancora conclusosi, vista la perdurante impossibilità di andare ad un regolamento condiviso dello Status finale del Kosovo.
A fronte della crisi dei Balcani tutti gli attori internazionali, Stati, Nazioni Unite, Organizzazioni Internazionali, Unione Europea, hanno dovuto fare i conti con politiche e con esigenze contrastanti che si sono annullate a vicenda, determinando esiti disastrosi.
Tutte le Istituzioni internazionali intervenute nei Balcani per confrontarsi con la necessità di impedire l’estensione del conflitto, di arginarlo e di pilotarlo verso una soluzione pacifica sono state messe a dura prova ed hanno dovuto abbandonare il campo, salvo il rientro tardivo una volta che la logica della violenza bellica aveva esaurito la sua fase propulsiva.
Per la nascente Unione Europea, i Balcani sono stati un duro banco di prova. A partire dalla Conferenza di Pace, convocata dalla Comunità (non ancora Unione) Europea a l’Aja nel settembre del 1991 e dall’intervento congiunto della Comunità Europea e dell’ONU con la Conferenza di Ginevra (settembre 1992), i piani di pace elaborati dalle istituzioni internazionali, con il contributo dell’Europa, sono stati ostacolati dalla freddezza, se non dall’ostilità con cui sono stati accolti dalla Cancellerie di talune potenze occidentali (in primis gli Stati Uniti), che hanno così scoraggiato gli attori principali della tragedia Balcanica ad accettarli. Non a caso i mediatori internazionali Vance ed Owen sono stati costretti a dimettersi in polemica con i rispettivi governi ed il successivo mediatore dell’Unione Europea, Carl Bildt, addirittura è stato espulso da Zagabria (1995), come persona non grata.
In questo contesto non è senza significato il fatto che gli Stati Uniti hanno fatto fallire l’intervento della Comunità Europea che avrebbe potuto sventare sul nascere la guerra nel teatro Bosniaco, attraverso il c.d. “piano di Lisbona”, presentato dal mediatore europeo Jorge Cutileiro ed accettato da tutti gli interessati, che lo firmarono il 18 marzo 1992. Pochi sanno che il piano fallì per l’ingerenza degli Stati Uniti. Com’è noto Izetbegovic ritirò la firma dopo aver avuto assicurazione che gli Stati Uniti lo avrebbero appoggiato, come effettivamente fecero, sulla strada dell’indipendenza unilaterale.
Tutto il successivo svolgimento diplomatico della crisi Balcanica è stato orientato dall’esigenza di marginalizzare il ruolo delle Istituzioni internazionali e fare emergere il ruolo leader di un concerto di potenze guidate dagli Stati Uniti. Emarginato il ruolo dell’ONU e dell’Unione Europea, la gestione della crisi è stata affidata ad un concerto di potenze autodenominatesi “Gruppo di contatto”, nel quale la Potenza leader dell’Occidente si è assunta la responsabilità di condurre il gioco e lo ha fatto, utilizzando l’atout della NATO. Ciò ha consentito agli USA di giocare un ruolo politico centrale nei Balcani, marginalizzando ancor di più l’Europa, attraverso il ruolo militare di leadership che essi esercitano (o meglio esercitavano) nella NATO.
7. Il mito della forza come regolatore del conflitto.
Attribuire un ruolo politico alla NATO, come strumento per la pacificazione del conflitto, è stata la chiave di volta che ha consentito agli Stati Uniti di riproporre il proprio ruolo egemonico di garante dell’ordine mondiale in virtù della superiore forza delle proprie armi.
Il 1° intervento armato della NATO nei Balcani con i bombardamenti sulla Bosnia dal 30 agosto al 15 settembre 1995, è stato venduto all’opinione pubblica come l’elemento risolutore della crisi. Si è creata prima nell’opinione pubblica una diffusa sensazione di insofferenza verso l’azione debole e inconcludente delle istituzioni internazionali e quindi il ricorso all’uso della forza, attraverso la guerra aerea, è stato presentato come l’unico regolatore possibile del conflitto, il toccasana di tutti i mali. Da tali eventi è stata tratta la lezione che solo con il ricorso alla forza (da parte dell’Occidente sotto la guida degli USA) è possibile gestire le crisi che travagliano il mondo del dopo guerra fredda e che, nel caso dei Balcani, un ricorso più precoce e più deciso alla forza avrebbe potuto risparmiare alle popolazioni coinvolte la maggior parte degli orrori che avevano subito. Ciò ha comportato una inevitabile rilegittimazione della politica di Potenza, posta a base delle nuove strategie militari e dei nuovi modelli di difesa al di qua e al di là dell’Atlantico, ed un altrettanto inevitabile rafforzamento della leadership degli USA sull’Europa.
In realtà tale interpretazione falsava gli eventi in quanto non è stato il ricorso al bombardamento da parte della NATO a determinare la conclusione del conflitto in Bosnia bensì l’accordo – raggiunto con tutte le parti interessate – di pervenire ad una sostanziale divisione in due della Bosnia, appena mascherata da un velato ordinamento federale, sottoposto a sorveglianza e garanzie internazionali. Quando si sono levati in volo i bombardieri della NATO, la sera del 30 agosto 1995 l’accordo era stato già definito, salvo i particolari. L’azione militare, sebbene rivolta contro i Serbi, in realtà è servita a piegare alla pace i bosniaci (mussulmani), riluttanti all’accordo, concedendo loro la soddisfazione di una rivincita militare attraverso la possibilità di riprendersi con le armi quei territori che l’Entità serbo-bosniaca avrebbe comunque dovuto cedere.
La chiave di volta della pace di Dayton non è stato l’uso della forza, ma la mediazione che ha messo in equilibrio gli interessi delle parti contrapposte, come aveva tentato di realizzare l’iniziativa diplomatica europea se non fosse stata boicottata.
8. Il ruolo della NATO.
Tuttavia dalle vicende della guerra di Bosnia emerse la possibilità – e per un limitato verso anche l’esigenza – che la NATO giocasse un ruolo nel contesto delle garanzie della sicurezza internazionale. Ciò fece si che venisse messa a punto nell’ambito della NATO una strategia operativa di intervento per la gestione delle crisi, includendovi dentro, tanto le tradizionali (per l’ONU) missioni di peacekeeping (mantenimento della pace), quanto le missioni di peacebuilding (ricostruzione della pace), di cui la missione militare dispiegata in Bosnia, a seguito degli accordi di Dayton costituisce un esempio classico, che le missioni di peaceenforcing (per es, sorveglianza degli embargi delle armi) e le missioni di peacemaking (costruire la pace attraverso un vero e proprio intervento bellico). In questo contesto, per la decisa posizione assunta all’Italia, durante il Governo Dini (1995) fu stabilito che la NATO non aveva legittimità a ricorrere a misure comportanti l’uso della forza senza la preventiva autorizzazione del Consiglio di Sicurezza, come del resto prevede la Carta delle Nazioni Unite. Addirittura in questo periodo il ministro degli esteri del Governo Dini, Susanna Agnelli, diede platealmente uno schiaffo agli Stati Uniti, vietando – per qualche tempo – che fossero dislocati ad Aviano i cacciabombardieri invisibili Stealth, (che saranno i principali protagonisti della guerra del 99), fino a quando l’Italia non fu inclusa nel Gruppo di contatto, da cui l’amministrazione americana voleva tenerla fuori. Questa posizione assunta dal Governo Dini fu ereditata dal I Governo Prodi e lo stesso Dini, come ministro degli esteri la mantenne in piedi, come posizione ufficiale della Farnesina, in dichiarazioni pubbliche e comunicati stampa, fino al settembre del 1998.
Nel frattempo la crisi della convivenza interetnica fra serbi ed albanesi nel Kosovo si aggravò in quanto qualcuno decise di soffiare sul fuoco del conflitto armato, appoggiando una banda armata (l’UCK) che aveva avuto oscure origini e che fino a quel momento non aveva giocato un ruolo effettivo.
E’ il 1° marzo 1998 la data che segnò l’inizio della guerriglia dell’UCK, con l’uccisione di due poliziotti serbi a Drenica, a cui fece seguito una reazione inconsulta che provocò la morte di 20 albanesi. Nella primavera del 1998 si accesero i fuochi di sporadiche azioni di guerriglia a cui fecero seguito drastiche azioni di repressione.
A questo punto la NATO, sotto la spinta dell’amministrazione americana decise di intervenire “politicamente” nel conflitto lanciando, con un comunicato del Consiglio atlantico del 28 maggio 1998 un duro monito a Belgrado, in cui lasciava intravedere la possibilità di un intervento militare. Questa posizione, in realtà, più che favorire un self restraint da parte dell’apparato militare jugoslavo, non poteva che incoraggiare l’UCK sulla strada della guerriglia che, seppure perdente sul terreno, in prospettiva diventava vincente, potendo giocare un ruolo di detonatore per l’intervento militare occidentale. I furiosi combattimenti che ne sono seguiti durante l’estate del 98 e la durissima repressione scatenata dalle forze di sicurezza serbe (peraltro ingigantita dalla stampa internazionale con la fabbricazione di notizie false) hanno sollecitato lo sdegno dell’opinione pubblica internazionale, creando l’humus politico favorevole per l’intervento della NATO.
C’era, però, un problema da risolvere.
9. Le pressioni della NATO sull’Italia.
La carta delle Nazioni Unite non consente che gruppi di Stati possano ricorrere all’uso della forza per regolare le crisi internazionali e, conseguentemente, la NATO non aveva alcuna legittimità per effettuare un intervento militare per regolare la crisi del Kosovo, aggredendo una delle parti in conflitto ed alleandosi con l’altra.
Nel corso della primavera, dell’estate e del mese di settembre del 1998 si sviluppò un dibattito sulla possibilità che la NATO intervenisse militarmente nel Kosovo, anche in assenza di una formale autorizzazione da parte del Consiglio di Sicurezza. Tale dibattito nascondeva un conflitto politico durissimo fra Stati Uniti e Gran Bretagna (che sostenevano la tesi della legittimità del ricorso alla forza) e l’Italia che continuava ad opporsi, mentre gli altri paesi europei tentennavano. Tale posizione, peraltro, non era affatto scontata all’interno del Governo italiano, in quanto il Ministro della difesa Beniamino Andreatta, propugnava l’allineamento totale dell’Italia alle esigenze degli Stati Uniti, secondo la tradizionale politica di “fedeltà atlantica”, tuttavia gli equilibri politici di maggioranza escludevano che il Governo Prodi potesse assumere una posizione differente senza rischiare una crisi.
E’ sorta a questo punto per l’Alleato americano l’esigenza di provocare un mutamento di Governo in Italia per ottenere una maggioranza più omogenea alle esigenze belliche della NATO. Poiché non si poteva correre il rischio di nuove elezioni, il cui esito non sarebbe stato prevedibile, è sorta l’esigenza di trovare una maggioranza di ricambio che potesse fare accrescere il tasso di “fedeltà atlantica” dell’ Italia, sostituendo Rifondazione comunista con forze più omogenee alla NATO. A questo punto è stato attivato il più autorevole dei terminali della CIA nel sistema politico italiano, l’ex Presidente della Repubblica Francesco Cossiga, l’uomo di Gladio. Cossiga, fino all’inizio del 1998 aveva svolto un ruolo di tutore del centro destra e sembrava che volesse contendere a Berlusconi la leadership della destra. Invece nella primavera del 1998 Cossiga fece un revirement ed, utilizzando la sua influenza politica occulta ma reale sul sistema politico italiano, riuscì a staccare una frazione di deputati e senatori dal centro destra, fondando l’Udeur, con il dichiarato scopo di far nascere una nuova maggioranza politica che sostituisse quella basata sull’alleanza dell’Ulivo più Rifondazione e guidata da Prodi.
Quasi tutti hanno commentato l’operazione Udeur guidata da Cossiga come una manifestazione del peggiore costume trasformistico italiano. Ed invece tale operazione, che pur si avvaleva della tendenza al trasformismo esistente nel sistema politico italiano, aveva uno specifico significato ed un preciso obiettivo di natura internazionale: quello di provocare un mutamento della posizione internazionale dell’Italia e di ottenere la legittimazione della NATO al ricorso alla guerra, come strumento della politica di potenza americana. Operazione perfettamente riuscita.
10. La svolta del 1998.
Perso il condizionamento di Rifondazione comunista, indeboliti i Verdi, indebolita la posizione autonomistica di Dini, il 12 ottobre 1998 il Governo Prodi, sebbene sfiduciato, compì l’atto politicamente più rilevante dalla sua nascita, e più gravido di conseguenze per il futuro, accettando l’adesione dell’Italia all’ “activation order”.
“Di conseguenza – recitava il comunicato di Palazzo Chigi – l’Italia metterà a disposizione le proprie basi qualora risulterà necessario l’intervento militare da parte dell’Alleanza atlantica per fronteggiare la crisi del Kosovo (..) Nell’attuale situazione costituzionale – concludeva il comunicato – il contributo delle forze armate italiane sarà limitato alle attività di difesa integrata del territorio nazionale. Ogni eventuale ulteriore impiego delle Forze armate italiane dovrà essere autorizzato dal Parlamento.”
In sede politica – nell’ambito del Centro Sinistra – la svolta dell’Italia sulla liceità del ricorso all’uso della forza da parte della NATO era stata propugnata dall’allora segretario del partito dei DS – l’on. D’Alema – e dall’allora sottosegretario alla Difesa, il sen. Brutti, i quali si erano affrettati a dichiarare che la concessione dell’uso delle basi italiane (nella imminente guerra contro la Jugoslavia) costituiva un “atto dovuto” ed un effetto “automatico” della partecipazione italiana alla NATO, venendo smentiti (sull’automatismo) dal Presidente della Commissione esteri del Senato, Migone.
Il giorno successivo, il 13 ottobre, il Segretario Generale della NATO, Solana, emanò l’activation order, conferendo al Comandante militare (SACEUR), gen. Clark, il potere di ordinare attacchi armati contro la Repubblica federale jugoslava.
Era ormai alle porte un Governo D’Alema, con la benedizione di Cossiga e con l’uomo giusto, Carlo Scognamillo, al posto giusto, il Ministero della Difesa. Un governo affidabile per compiere la missione che la Nato ci aveva affidato: la guerra del Kosovo, come ci ha rivelato, a cose fatte, uno dei protagonisti.
Sul Foglio del 4 ottobre 2000, l’ex Ministro della Difesa, Carlo Scognamillo, polemizzando con James Rubin, l’ex portavoce di Madeleine Albright, si lascia sfuggire:
“A Rubin sfugge che in Italia avevamo dovuto cambiare governo proprio per fronteggiare gli impegni politici-militari che si delineavano in Kosovo…Prodi ad ottobre aveva espresso una disponibilità di massima all’uso delle basi italiane, ma per la presenza di Rifondazione nella sua maggioranza non avrebbe mai potuto impegnarsi in azioni militari. Per questo il senatore Cossiga ed io ritenemmo che occorreva un accordo chiaro con l’on. D’Alema” In che cosa consisteva questo accordo? “Due parti. La prima era il rispetto dell’impegno per l’euro..la seconda era il vincolo di lealtà alla NATO: l’Italia avrebbe dovuto fare esattamente ciò che la NATO avrebbe deciso di fare.”
Questo è esattamente ciò che l’Italia ha fatto.
11. Una rottura dell’ordine internazionale.
La sera del 24 marzo 1999, quando si sono levati in volo i bombardieri della NATO e sono partiti i primi missili cruise dalle navi militari americane schierate nell’Adriatico, si è consumato un evento che ha segnato una drammatica rottura dell’ordine internazionale, come delineato dalla Carta delle Nazioni Unite. Un gruppo di potenze, unite sotto la “leadership” degli Stati Uniti, con lo strumento della NATO, attraverso una avventura bellica, ha aperto una nuova avventura nelle relazioni internazionali, riappropriandosi dello “jus indicendi bellum”, che la comunità internazionale aveva formalmente abrogato nel 1945. Si è trattata di una cosa non da poco se l’effetto è stato quello di rimuovere il tabù che vietata il ricorso alla guerra come strumento della politica.
Quando il pomeriggio del 24 marzo il Parlamento italiano è stato informato dal Governo che l’azione della NATO era iniziata, i bombardieri erano già in volo, la macchina da guerra si era messa in moto secondo un progetto predisposto e reso operativo da tempo, e la politica non avrebbe potuto fare niente per arrestarla: ormai si era consumato un evento (anche politicamente) irreversibile.
In quel frangente, nessuna forza di maggioranza o di opposizione contraria alla guerra, nessun sindacato, nessuna mobilitazione popolare, nessuno sciopero generale (che non c’è stato), nessun referendum, nessuna Commissione e nessun Parlamento Europeo, avrebbe potuto fermare i bombardieri in volo ed impedire che oltrepassassero quella soglia, destinata a produrre quegli eventi disastrosi per il Kosovo e la Serbia che si sono sviluppati come vicende ineluttabili, e gli ulteriori effetti deteriori per l’ordine internazionale.
Se il 24 marzo 1999 la macchina bellica della NATO non poteva più essere arrestata dalla politica, allora v’è da chiedersi quando è maturata questa irreparabilità, quando e da chi sono stati fatti i passi, sono state compiute le scelte politiche che hanno reso, prima, il ricorso alla guerra possibile e, poi, ineluttabile?
Come abbiamo visto sono state le scelte politiche occultamente compiute nella primavera-autunno 1998, che hanno rimosso gli ostacoli politici, hanno manomesso gli equilibri parlamentari e di governo, ed hanno spianato la strada al progetto bellico con il quale taluni hanno voluto celebrare il cinquantenario della NATO, modificandone la natura (di alleanza difensiva) e la ragione sociale.
Scelte politiche di importanza primaria, sono state compiute in maniera occulta e clandestina, senza che il popolo sovrano (e nemmeno le sue articolazioni politiche come i partiti a base popolare) ne venisse minimamente informato. Sono state, pertanto, totalmente sottratte, al circuito della democrazia.
Il nostro paese, a cagione della sua particolare posizione geopolitica, ha giocato un ruolo fondamentale per rendere attuabili indirizzi strategici destinati ad incidere concretamente sull’identità non solo dell’Italia ma dell’Europa nel suo complesso.
12. La crisi della NATO.
Un altro aspetto della clandestinizzazione della politica internazionale attiene alla crisi della NATO, determinata proprio dalla poco gloriosa avventura del Kosovo.
Pochi si sono resi conto che l’incapacità della NATO di portare a conclusione una guerra che doveva – nelle previsioni dei suoi strateghi – durare solo pochi giorni ha determinato una fortissima tensione, al limite della rottura fra i membri della NATO ed in particolare fra gli Stati Uniti ed alcuni paesi europei.
A questo riguardo sono utili le ammissioni fatte – a posteriori – da alcuni degli attori politici. Nel suo libro di memorie “La Guerra del Kosovo” (Rizzoli, 2002), l’ex Ministro della Difesa Carlo Scognamillo, riferisce che l’8 giugno 1999, a margine della riunione die Ministri della Difesa della UEO , si tenne una riunione “discreta” (quindi evidentemente semi-segreta) dei Ministri della Difesa di Italia, Germania, Francia e Gran Bretagna. “L’esame della situazione si concluse con un giudizio unanime di preoccupazione e di insoddisfazione. L’air strike cominciava a durare troppo a lungo e, sebbene la condizione strategica zero losses si fosse realizzata, non ci risultava che i danni provocati ai militari di Milosevic potessero determinare a breve una rotta, mentre cresceva l’insofferenza in Occidente per gli errori e gli incidenti che si verificavano nei bombardamenti.
Per altro verso il generale Arpino mi aveva informato che il comando NATO era prossimo all’esaurimento dei bersagli autorizzati. Cosicché l’azione rischiava di doversi fermare o per i troppi errori o per mancanza di obiettivi. Indirettamente Clark finì sul banco degli accusati. Non aveva osato troppo nel promettere il successo e non era troppo debole, ora che si rendeva necessario un più risoluto impegno da parte degli americani?”
Quindi Scognamillo ci informa che, nell’occasione si decise di organizzare un incontro riservato a cinque, sotto il nome di “club degli amici dell’attuazione”, a cui avrebbe dovuto partecipare anche Cohen il segretario USA alla Difesa.
Il compito di questo “club degli amici dell’attuazione” doveva essere quello di organizzare la formazione di una forza di attacco terrestre, che avrebbe dovuto essere pronta per l’attacco entro settembre.
Fortunatamente la capitolazione di Milosevic, il 10 giugno 1999 travolse il piano di attacco terrestre, così segretamente organizzato alle spalle del popolo sovrano, risparmiando all’Italia ed all’Europa l’onta di una nuova carneficina.
Dal punto di vista politico-militare è interessante la testimonianza del “vincitore” della campagna aerea della NATO, il gen. Michael C. Short, che in un articolo pubblicato nel settembre del 1999 dalla rivista dell’Aereonautica (Air Force) ricostruisce i retroscena della campagna aerea condotta per 78 giorni contro la Jugoslavia di Milosevic e le tensioni insorte in seno alla NATO. In sostanza Short si lamenta che la struttura politica della NATO, in più occasioni, gli ha messo i bastoni fra le ruote, impedendogli di condurre l’azione nel modo che lui reputava più efficace. Short, per es. si lamenta che per 10 o 12 giorni i Belgradesi hanno organizzato concerti rock, sfidando la NATO, senza che lui potesse reagire perché un paese membro dell’Alleanza si era opposto al bombardamento del ponte sul quale si riunivano i belgradesi. Si lamenta inoltre che i paesi membri della NATO spesso trovavano da ridire e ponevano dei veti sugli obiettivi programmati dai militari, costringendo gli aerei in volo ad interrompere la missione e tornare indietro.
La lezione che Short (e con lui il sistema militare USA) trae dall’esperienza della guerra del Kosovo è che non si possono fare le guerre a mezzadria.
Per questo quando si dovranno fare delle guerre vere, non si potrà più fare ricorso alla NATO, ma dovranno organizzarsi alleanze dei volenterosi, in cui le forze alleate siano messe direttamente sotto il comando della superpotenza americana.
Quindi la guerra del Kosovo non ha segnato il trionfo della NATO, ma il suo declino.
Per questo, quando gli Stati Uniti decidono di rilanciare il progetto dello scudo spaziale e di estendere all’Europa le sue installazioni, non è alla NATO che si rivolgono (dove devono scontare l’opposizione di più paesi europei), ma scelgono il metodo bilaterale (quello criticato da D’Alema ad Oslo), stipulando accordi diretti con la Polonia e la Repubblica Ceka, by-passando la NATO ed ovviamente escludendo ogni confronto con l’Unione Europea.
13. Conclusioni.
Queste vicende (ripresa della guerra fredda, fallimento della diplomazia nel conflitto dei balcani, guerra del Kosovo) hanno un comune denominatore e da esse può trarsi una lezione
comune.
La prima osservazione da fare è che la clandestinizzazione delle scelte politico-militari, oltre a svuotare di significato le istituzioni della democrazia è disastrosa per tutti, perché consente ai ceti dirigenti di compiere delle operazioni fortemente contrastanti con il bene pubblico che, in un contesto di trasparenza e di dibattito democratico non sarebbero concepibili e che nei fatti impediscono la nascita dell’Europa come soggetto sulla scena internazionale.
La seconda osservazione è che le scelte compiute in un solo paese (l’Italia nel 1998/99, la Polonia e la Repubblica Ceka nel 2006) sono destinate a riflettersi immediatamente ed a pregiudicare la politica, se non addirittura l’identità dell’Unione Europea.
Di conseguenza è più che mai necessaria la prospettiva di una sinistra europea, capace di costruire movimenti politici coordinati e solidali che pongano sul tappeto i problemi della politica internazionale nella dimensione della costruzione della pace e della giustizia, affrontando in ogni paese le battaglie politiche che sono necessarie.
Roma, 2 maggio 2007