L’intervista di Giuliano Pisapia pubblicata sul manifesto del 22 dicembre (Sulla giustizia l’intesa è possibile Serve un garante) ha il pregio di essere una provocazione, non in senso politico, ma in senso semantico. Una forte provocazione al dibattito politico-istituzionale sulla giustizia che ci consente di avviare un confronto, fuori da ogni schematismo, sui temi caldi delle riforme dell’assetto del giudiziario, da sempre incombenti, ma di scarsa comprensione per la generalità degli italiani. Ed è proprio questa scarsa comprensione della portata concreta dei problemi agitati sotto il cielo delle riforme, che genera disorientamento e fratture anche nella sinistra d’opposizione. Dobbiamo tutti fare uno sforzo perché il dibattito sulle riforme della giustizia esca dal vago per andare alla sostanza dei problemi.
Ed allora è proprio vero che la separazione delle carriere è assolutamente necessaria perché discende dall’articolo 111 della Costituzione, che ha costituzionalizzato il principio del giusto processo sulla falsariga dell’art. 6 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo?
O non si tratta piuttosto di un mito puramente ideologico, agitato da alcune associazioni di avvocati (penalisti) come una verità di fede, della quale non si può discutere la ragionevolezza come non si possono discutere i dogmi della Chiesa cattolica?
Forse dubitiamo del fatto che l’attività del Pubblico Ministero sia un’attività giurisdizionale e che – come tutte le attività giurisdizionali – debba essere imparziale e scevra da fini persecutori, anche nell’esercizio delle funzioni di parte processuale?
O forse crediamo che, una volta staccato il Pubblico Ministero dalla cultura della giurisdizione ed attribuito allo stesso un ruolo di superpoliziotto, i diritti dell’uomo messi in gioco nel processo penale riceveranno una più salda tutela?
Possiamo ignorare che viviamo in un contesto politico in cui un Presidente del Consiglio, in un concesso internazionale, si è doluto del fatto che in Italia il potere politico non controlla l’ufficio del Pubblico Ministero e che la separazione delle carriere è un presupposto imprescindibile per consentire il ritorno del P.M. sotto l’egida del potere esecutivo?
Se noi smettiamo di considerare la separazione delle carriere una verità di fede e ci guardiamo dentro per capirne l’urgenza o quanto meno la ragionevolezza, allora dobbiamo concludere: sotto il vestito, niente. Né si usi come alibi il giusto processo, dal momento che l’introduzione del processo accusatorio esige, non la separazione delle carriere, ma la separazione delle funzioni giudicanti da quelle requirenti, che nel nostro ordinamento è stata compiutamente realizzata.
Ma ancora più pericolosa della separazione delle carriere sarebbe la ventilata istituzione di una c.d. “Alta Corte di Giustizia”, composta da membri nominati dal Parlamento, a cui affidare il controllo disciplinare sui magistrati.
I costituenti, evidentemente ispirati da una vera e propria idiosincrasia per le dittature, hanno posto dei paletti per garantire che il potere rimanesse diviso, vale a dire che il potere di iuris-dicere non potesse essere sottoposto al controllo del potere politico di governo.
Lo strumento attraverso cui nell’ordinamento si realizza l’indipendenza funzionale della magistratura è il Consiglio Superiore della Magistratura, che, per Costituzione, deve essere composto da una maggioranza di due terzi di magistrati eletti dagli appartenenti al corpo.
Due sono le funzioni principali del CSM, gestire le carriere dei magistrati e gestire il controllo disciplinare. Tutte e due questa funzioni sono indispensabile per evitare che il potere politico possa influenzare l’esercizio indipendente (ed imparziale) della giurisdizione controllando la leva della carriera e dello status del singolo magistrato.
Sottrarre la leva disciplinare al CSM per affidarla ad un organo politico, significa nella sostanza affidare alle contingenti maggioranze parlamentari un controllo politico della magistratura, che diventerà in concreto molto meno indipendente.
Non è una questione astratta, quelli che sono in gioco non sono i massimi sistemi, ma l’esercizio dei diritti nella loro concretezza storica.
Basta fare un esempio. Quanti si rendono conto che in questo particolare momento storico in Italia, quel poco che rimane di libertà di espressione del pensiero e di pluralismo è appeso al filo dell’imparzialità e dell’indipendenza di 5 o 6 giudici?
Quando qualcuno si duole dell’aggressione a Repubblica o all’Unità da parte del premier, quanti si rendono conto che la frontiera sulla quale quella aggressione può essere fermata è la giurisdizione civile, ed in particolare una certa sezione del Tribunale di Roma, in cui pochi magistrati, esercitando sino ad ora in modo imparziale il proprio lavoro, hanno consentito che non venissero zittite le voci critiche che hanno fatto il controcanto alla narrazione politica dominante, venendoci a raccontare le miserie ed i misfatti degli uomini del potere?
Quanti si rendono conto che se, esiste ancora nella TV pubblica, quello spazio di pluralismo rappresentato dalla trasmissione di Santoro, ciò è dovuto all’intervento di un giudice, un giudice del lavoro che ha ordinato alla RAI di reintegrare il giornalista?
Quanto credete che potranno resistere questi pochi giudici quando sarà possibile scagliare contro di loro azioni disciplinari faziose che saranno giudicate da un giudice composto in maggioranza da ies-men del nostro amabile presidente?