L’esperienza storica italiana ci dimostra che per realizzare un mutamento di regime non è necessario il ricorso alle ami o un moto insurrezionale. Nel secolo scorso una maggioranza politica, che non si sentiva vincolata al rispetto della Costituzione dell’epoca (lo Statuto Albertino), attraverso alcuni provvedimenti legislativi approvati fra la fine del 1925 ed il 1926, conferì maggiori poteri al Presidente del Consiglio, trasformandolo in Primo ministro, normalizzò la magistratura espellendo i magistrati che si battevano per l’indipendenza del potere giudiziario, cancellò le autonomie politiche e sindacali, sciogliendo i sindacati e mettendo fuori legge i partiti politici di opposizione, realizzando così un nuovo regime politico.
In questo scorcio di secolo, l’anomalia istituzionale è rappresentata da una maggioranza politico-parlamentare che non riconosce nessuno dei beni pubblici repubblicani che la Costituzione ha istituito come tessuto connettivo per il nostro vivere civile, a partire dal principio supremo dell’eguaglianza, mentre il suo capo politico non ha vergogna di dichiarare pubblicamente che l’architettura repubblicana dei poteri per lui è un inferno.
Superata la fase delle leggi ad personam, concepite per tutelare l’interesse all’impunità di uno o pochi imputati eccellenti, adesso siamo entrati in una fase in cui si mettono a punto, attraverso la legislazione ordinaria, dei meccanismi idonei a modificare il volto dell’ordinamento ed, in tal modo, determinare un mutamento di regime.
La legge sulle intercettazioni, che in questa settimana, arrivata in dirittura finale al Senato, è stata blindata con la fiducia, non è una delle tante riforme del codice di procedura penale che si sono avvicendate negli ultimi tempi con un ritmo forsennato. E’ una riforma di sistema che, attraverso la compressione della giurisdizione, incide sulla qualità della democrazia, sfigurandola.
Anche se le modifiche dell’ultima ora ne hanno limato alcune delle punte più paradossali, non è cambiata la natura del provvedimento, che, agendo su più fronti (quello dell’opinione pubblica, quello delle tecniche e delle procedure di indagine, quello del condizionamento dei magistrati), mira ad un risultato coerente ed unitario: l’oscuramento della verità.
La democrazia è un organismo che gode di una salute fragile. E’ insidiata da molte patologie, sempre in agguato. Gli anticorpi per contrastare le patologie che aggrediscono la vita di una comunità organizzata in Stato si trovano all’interno dei meccanismi di controllo, sia politici che istituzionali, che compongono la trama dell’assetto democratico dell’ordinamento.
Il principale meccanismo politico è rappresentato dal controllo dell’opinione pubblica. Il principale meccanismo istituzionale è rappresentato dal controllo di legalità esercitato dall’autorità giudiziaria.
Entrambi si agevolano e si rafforzano a vicenda. L’attività giudiziaria, se non fosse sottoposta alla conoscenza ed al controllo dell’opinione pubblica, potrebbe degenerare, perdendo efficienza ed imparzialità. Ugualmente l’opinione pubblica, se non venisse alimentata dalla conoscenza dei fatti che solo l’autorità giudiziaria può fare emergere, non potrebbe svolgere nessuna funzione di controllo.
L’esercizio della giurisdizione penale ha la funzione di incidere, con il bisturi, sulle patologie più gravi che affliggono la convivenza civile e che aggrediscono la vita, la libertà ed i beni dei cittadini. Il contrasto alla criminalità, prima ancora che attraverso l’irrogazione delle sanzioni, avviene attraverso il disvelamento delle trame, facendo emergere alla luce del sole quei misfatti che si sono sviluppati in modo occulto.
La conoscenza delle patologie sociali è la medicina che ne consente la guarigione, attivando i meccanismi di reazione. L’attività di indagine che compie la polizia, sotto la direzione dell’autorità giudiziaria, mutatis mutandis, è simile alle indagini diagnostiche che vengono fatte negli ospedali per conoscere lo stato delle patologie che pregiudicano la salute del paziente.
E’ evidente che un surplus di TAC o di risonanze magnetiche, oltre che gravare eccessivamente di costi la sanità, può essere controproducente rispetto alle esigenze di cura. Così è evidente che, nel campo giudiziario, i mezzi di indagine che incidono sulla privacy, conformemente al dettato costituzionale, devono incontrare i limiti fissati dalla legge e dall’intervento di un giudice imparziale.
Ma è possibile concepire un intervento legislativo che invece di agevolare l’efficienza dell’azione di contrasto alla criminalità, cioè la cura delle patologie sociali, miri, al contrario, a smantellare la capacità investigativa degli inquirenti, togliendo dalla cassetta degli attrezzi della polizia quegli strumenti di indagine (non solo le intercettazioni) che la tecnologia ha messo a disposizione della ricerca della verità?
Il contrasto alla criminalità non è un bene disponibile da parte delle maggioranze parlamentari. Per quanto l’esercizio della giurisdizione penale abbia un carattere odioso per la sua natura coercitiva, essa è posta a presidio di beni pubblici: la vita, la salute, la libertà, l’erario, che non possono essere dismessi. Non si può lasciare impunito l’omicidio per non violare la privacy dell’assassino e del suo entourage.
Lo stesso discorso vale per la corruzione e lo sperpero dei fondi pubblici, il traffico di droga, le rapine in banca, gli abusi sui minori e le altre gravi patologie che affliggono la nostra vita quotidiana. La legge dovrebbe agevolare la ricerca della verità. Invece la riforma delle intercettazioni, vietando o ostacolando gravemente l’attività investigativa, persegue tenacemente lo scopo opposto: l’oscuramento. Fino al punto da oscurare persino il giudice che procede.
Attraverso il divieto, benché attenuato nell’ultima versione, di pubblicazione del nome e dell’immagine del giudice, non si realizza soltanto la vendetta postuma contro Falcone e Borsellino, si modifica la natura dell’attività di iuris-dicere, applicando una maschera per rendere invisibile il volto del giudice, come accadeva nei processi dell’inquisizione. In questo modo si intacca anche il bene pubblico della trasparenza nell’esercizio delle funzioni pubbliche.
Per questo ci troviamo, pertanto, di fronte ad una riforma di sistema che modifica profondamente la natura dell’ordinamento, come avvenne con le leggi speciali del 1925. Attraverso questa riforma, ridimensionando il controllo di legalità, tutti i beni pubblici repubblicani vengono compressi, limitati, depotenziati, se non addirittura apertamente rinnegati.
Se la democrazia si nutre di verità e di trasparenza, qui si stanno gettando le basi per un nuovo ordinamento che bandisce la verità e la trasparenza.
Se la verità rende liberi, dove ci porta un sistema orientato all’oscuramento della verità?