Non possiamo ignorare le drammatiche contingenze che hanno visto naufragare in un bagno di sangue la lotta del popolo libico, animata dal vento di libertà, che ha scosso quest’inverno tutte le piazze arabe, partendo dalla Tunisia. E non possiamo ignorare il contesto nel quale è intervenuta la risoluzione 1973 adottata dal Consiglio di Sicurezza il 17 marzo di quest’anno, a seguito della quale sono iniziate una serie di incursioni aree sulla Libia che sono ancora in corso.
Tuttavia, anche nell’affrontare una situazione in cui gli eventi sono precipitati sotto l’urgenza degli avvenimenti, dato che stiamo parlando di guerra e di pace, di bombardamenti e di diritti dell’uomo, bisogna partire dai fondamenti.
Nei fondamenti c’è l’annunzio, partorito dopo la notte della II guerra mondiale, di una nuova storia, in cui l’umanità fosse liberata per sempre dalla minaccia delle guerre, delle violenze, delle discriminazioni, del disprezzo dei diritti universali dell’uomo e dei popoli.
Di quest’annunzio è stato fatto tesoro nei principi posti a base della Carta delle Nazioni Unite e sono espressi in modo plastico nel preambolo:
“Noi popoli delle Nazioni Unite, decisi
- a salvare le future generazioni dal flagello della guerra che, per ben due volte, nel corso di questa generazione ha causato sofferenze indicibili all’umanità;
- a riaffermare la fede nei diritti fondamentali dell’uomo, nella dignità e nel valore della persona umana, nella eguaglianza dei diritti degli uomini e delle donne e delle nazioni grandi e piccole…”
Ed è proprio la Carta delle Nazioni Unite che opera una vera e propria rivoluzione, in senso giuridico formale, delle relazioni internazionali, cancellando un istituto del diritto internazionale, il diritto degli Stati di ricorrere allo strumento della guerra (il c.d. ius ad bellum), vietando all’art. 2, par.4, non solo l’uso della forza, ma anche la minaccia dell’uso della forza nelle relazioni fra gli Stati.
Questo annunzio di una storia nuova è stata fatto proprio dai Padri costituenti che, con votazione quasi unanime, hanno decretato la cancellazione dello “jus ad bellum” dalle prerogative della sovranità, espellendo la guerra non dalla Storia (non avrebbero potuto), ma almeno dall’ordinamento giuridico.
Qui la Costituzione opera una innovazione decisiva rispetto allo Statuto albertino, invadendo il campo della politica estera, che le Costituzioni dell’800 avevano sempre considerato dominio riservato del sovrano.
E lo fa alla luce di una drammatica esperienza storica vissuta dal nostro paese.
Lo Statuto Albertino all’art. 5 contemplava il ricorso alla guerra come una prerogativa del Sovrano, statuendo che il Re: “dichiara la guerra, fa i trattati di pace, di alleanza, di commercio ed altri, dandone notizia alle Camere, tosto che l’interesse e la sicurezza dello Stato il permettano”.
Non dimentichiamo che l’entrata dell’Italia nella prima guerra mondiale fu il frutto di una trama ordita dal Re alle spalle del Parlamento, nel quale la maggioranza dei deputati con Giolitti era contraria alla partecipazione dell’Italia al grande massacro. Con lo sciagurato trattato di Londra stipulato segretamente il 26 aprile 1915, il Governo Salandra, con la complicità del Re d’Italia Vittorio Emanuele III e all’insaputa del Parlamento, che era nella sua maggioranza contrario alla guerra, impegnò il nostro paese ad entrare in guerra nel termine di un mese. (“il Piave mormorava…” il 24 maggio) In questo modo, attraverso la diplomazia segreta, fu sottratta al circuito della democrazia una scelta che si è rivelata esiziale per il futuro del nostro paese, provocando sofferenze e lutti inenarrabili al popolo italiano (oltre 750.000 morti). Peraltro il trattato di Londra si venne a conoscere solo perché, all’indomani della rivoluzione russa, nel novembre 1917, fu pubblicato dal giornale Izsvetzia. Esso fu pubblicato perché Lenin intendeva denunziare la prassi oscura della diplomazia segreta, praticata dalle Cancellerie delle principali potenze politiche dell’epoca, e rivendicare il diritto dei popoli alla propria autodeterminazione.
La Costituzione italiana compie una scelta netta per rinnegare per sempre quel passato che aveva prodotto quelle sciagure.
E lo fa gettando sul piatto il peso di valori e principi (il ripudio della guerra e la costruzione della Pace e la Giustizia fra le Nazioni) di grande spessore politico e morale, attraverso i quali viene costruita l’identità della Repubblica, il volto dell’Italia nelle relazioni internazionali.
Pertanto sono scolpite nella storia le parole dell’art. 11.
Art. 11 “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.”
Non a caso nel testo dell’art. 11 compare l’espressione “Italia” per indicare che il ripudio della guerra- costruzione della pace e giustizia nelle relazioni internazionali – è un bene originario che appartiene allo Stato-comunità, di cui lo Stato-apparato non può disporre.
L’apertura alla Comunità internazionale viene sancita stabilendo la supremazia del diritto internazionale generale sull’ordinamento interno (“L’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute.” art. 10) e consentendo le limitazioni di sovranità necessarie “ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni” (art. 11).
E’ stato proprio questo principio che ha costituito la porta attraverso la quale l’Italia è entrata in Europa e l’Europa è entrata in Italia, attraverso la costruzione della Comunità/Unione Europea.
L’art. 11 della Costituzione non ha solo valore di principio fondamentale, essendo posto nell’elenco dei principi fondamentali con cui si apre la Carta Costituzionale, ma esso, assieme all’art. 10, entra nei principi supremi della Repubblica, perchè attiene alla determinazione della sovranità dell’Italia verso l’esterno, per questo i giuristi parlano di natura “supercostituzionale” del principio della pace nelle relazioni internazionali.
Principio supercostituzionale vuol dire impossibilità di modificazione anche mediante leggi costituzionali, impossibilità di deroga anche medianti trattati internazionali, valore interpretativo massimo nei confronti delle altre disposizioni della Costituzione.
E’ pacifico pertanto che è l’art. 52 della Costituzione, laddove si afferma la difesa della Patria come sacro dovere del cittadino, a dover essere interpretato alla luce dell’art. 11 e non viceversa.
Il significato essenziale dell’art. 11 della Cost. è la sottoposizione al diritto costituzionale della politica estera, secondo linee d’indirizzo coerenti con i canoni fondamentali che governano l’esercizio della sovranità all’interno, cioè con il principio personalista che si fonda sul riconoscimento della dignità inviolabile di ogni persona, e quindi sull’inviolabilità dei diritti fondamentali.
L’imperativo base a fondamento dell’art. 11 è quello di condurre una politica estera secondo criteri di pace e giustizia, che sono insieme obiettivi e misure di condotta.
Pace e giustizia sono fra loro indissociabili. Non si può pensare ad una giustizia raggiunta con mezzi violenti ma neanche ad una pace che non sia fondata sulla giustizia. La pace da costruire o da consolidare non è quella dove “l’ordine regna a Varsavia”, non è quella di un ordine fondato sul disprezzo o sul disconoscimento dei diritti umani fondamentali. La promozione della pace comporta necessariamente un percorso verso la giustizia.
In questo vi è perfetta concordanza con la Carta delle Nazioni Unite che, al fine di mantenere e promuovere rapporti pacifici fra le nazioni, àncora alla giustizia la cooperazione internazionale.
Art. 55 “ Al fine di creare le condizioni di stabilità e di benessere che sono necessarie per avere rapporti pacifici ed amichevoli fra le nazioni, basati sul rispetto del principio dell’eguaglianza dei diritti o dell’autodecisione dei popoli, le Nazioni Unite promuoveranno:
a) un più elevato tenore di vita, il pieno impiego della mano d’opera, e condizioni di progresso e di sviluppo economico e sociale;
b) la soluzione dei problemi internazionali economici, sociali, sanitari e simili, e la collaborazione internazionale culturale ed educativa;
c) il rispetto e l’osservanza universale dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali per tutti, senza distinzione di razza, sesso, lingua o religione.”
Nell’art. 11 della Costituzione vi sono norme di scopo, che si pongono a livello primario rispetto alle altre per gerarchia di contenuto e norme più specifiche ed applicative.
Il ripudio della guerra, costituisce una disposizione specifica applicativa della norme di scopo che stabiliscono il primato della pace e della giustizia.
E’ perciò importante cercare di enucleare la portata del ripudio della guerra.
Anzitutto il nostro ordinamento considera illegittima la guerra “di aggressione” e la guerra “di intervento”, considerate tutt’uno con la guerra di “offesa alla libertà di altri popoli” ed includenti sia la “conquista”, sia le altre aggressioni, sia l’intervento nell’ambito di un altro Stato. Poi esso esclude la guerra come “strumento di politica nazionale” e come “sanzione giuridica”. Questo significa che è stata ripudiata anche la c.d. “guerra giusta”, risalente ad una antica tradizione politica e morale. E’ quindi escluso che la giustizia (che costituisce il principale obiettivo della politica internazionale) possa essere conseguita attraverso il ricorso allo strumento della guerra, per la semplice ragione che non si possono realizzare obiettivi di giustizia con il ricorso a mezzi obiettivamente ingiusti, salvo lo stato di necessità.
Rimane lecita la guerra di difesa ed è discutibile fino a che punto possa essere ammessa la difesa collettiva.
Qui entra in gioco la Carta delle Nazioni Unite perchè è vero che non è possibile una lettura dell’art. 11 Cost disgiunta dalla lettura della Carta delle Nazioni unite, essendo la norma sulle limitazioni di sovranità diretta – nelle intenzioni dei costituenti – proprio a consentire l’adesione dell’Italia alle Nazioni Unite.
E’ nella Carte delle Nazioni unite che troviamo l’interdizione dell’uso e della minaccia della forza (art. 2, comma 4) e la definizione del diritto alla legittima difesa (art. 51) e dei suoi limiti funzionali e strutturali.
ART. 51. Nessuna disposizione della presente Carta pregiudica il diritto naturale di autotutela individuale o collettiva, nel caso che abbia luogo un attacco armato contro un Membro delle Nazioni Unite, fintantoché il Consiglio di Sicurezza non abbia preso le misure necessarie per mantenere la pace e la sicurezza internazionale. Le misure prese da Membri nell’esercizio di questo diritto di autotutela sono immediatamente portate a conoscenza del Consiglio di Sicurezza e non pregiudicano in alcun modo il potere ed il compito spettanti, secondo la presente Carta al Consiglio di Sicurezza, di intraprendere in qualsiasi momento quella azione che esso ritenga necessaria per mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionale.
In realtà la Carta delle Nazioni Unite ha strutturato idealmente un ordinamento giuridico internazionale in cui al divieto imposto ai singoli Stati dell’uso della forza nelle relazioni internazionali corrisponde la responsabilità della gestione dell’ordine pubblico internazionale, che consiste essenzialmente nel prevenire la guerra, nel mantenere la pace e nel sanzionare le violazioni della pace, attribuita ad un organo centrale delle Nazioni Unite, il Consiglio di Sicurezza, nel quale siedono quei cinque membri permanenti con diritto di veto, espressione delle Potenze che hanno vinto la seconda guerra mondiale.
Il Cap. VII della Carta delle Nazioni Unite attribuisce una speciale competenza al Consiglio di Sicurezza nel caso di minacce alla pace, di violazione della pace e di atti di aggressione.
Il Consiglio di Sicurezza deve agire quando si verificano delle minacce alla pace o degli atti di aggressione, prendendo le misure adeguate alla situazione, secondo un crescendo collegato agli effetti delle proprie misure.
L’art. 41 prevede la competenza del CdS ad adottare misure non implicanti l’impiego della forza.
Articolo 41
Il Consiglio di Sicurezza può decidere quali misure, non implicanti l’impiego della forza armata, debbano essere adottate per dare effetto alle sue decisioni, e può invitare i membri delle Nazioni Unite ad applicare tali misure. Queste possono comprendere un’interruzione totale o parziale delle relazioni economiche e delle comunicazioni ferroviarie, marittime, aeree, postali, telegrafiche, radio ed altre, e la rottura delle relazioni diplomatiche
Se le misure non coercitive dovessero rivelarsi inadeguate, allora il CdS può adottare delle misure coercitive, a norma dell’art. 42.
Articolo 42
Se il Consiglio di Sicurezza ritiene che le misure previste nell’articolo 41 siano inadeguate o si siano dimostrate inadeguate, esso può intraprendere, con forze aeree, navali o terrestri, ogni azione che sia necessaria per mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionale. Tale azione può comprendere dimostrazioni, blocchi ed altre operazioni mediante forze aeree, navali o terrestri di Membri delle Nazioni Unite.
Per rendere attuabili le misure coercitive, la Carta prevedeva che si dovessero formare dei contingenti internazionali con le forze armate fornite dai paesi membri, sottoposti al Comando di un Comitato di Stato Maggiore. In particolare l’art. 46 prevedeva che:
“I piani per l’impiego delle forze armate sono stabiliti dal Consiglio di Sicurezza coadiuvato dal Comitato di Stato Maggiore”.
Il CdS quindi ha il potere di decidere misure coercitive ma ha anche la responsabilità di realizzarle direttamente o quanto meno di sorvegliarne l’attuazione per evitare un ricorso sproporzionato alla forza.
E’ noto che questo meccanismo istituzionale non è andato mai in vigore. Le forze armate delle Nazioni Unite non si sono mai formate, non esiste il Comitato di Stato Maggiore e fino alla fine della guerra fredda, il contrasto insanabile fra i membri permanenti ha reso impossibile l’utilizzo di questa competenza del CdS, lasciando sostanzialmente inattuato questo capitolo della Carta, almeno fino al 2 agosto 1990, quando la sciagurata invasione del Kuwait da parte dell’Iraq, ha riattivato la competenza del CdS, che ha adottato una serie di misure per sanzionare e reprimere l’aggressione irachena.
Quello che è importante notare è che le misure coercitive previste dal Cap. VII della Carta dell’ONU sono misure implicanti l’uso della forza, anche della violenza bellica, ma non sono misure che rendono lecito il ricorso alla guerra per fini di ordine pubblico internazionale.
Si è parlato, infatti, specialmente in occasione della guerra del Golfo (anche a sproposito) di “azione di polizia internazionale” della Nazioni Unite.
E’ importante mantenere questa distinzione, anche se può facilmente sconfinare nell’ipocrisia.
In effetti nella Carta dell’Onu c’è il ripudio della guerra, espresso in parole diverse, come c’è nella Costituzione italiana, perchè la guerra viene definita un flagello che causa sofferenze indicibili all’umanità mentre la missione fondamentale dell’ONU, anzi la sua ragione di essere è quella di preservare la pace nel mondo. Le misure coercitive vanno inquadrate in questo contesto. L’uso della violenza in funzione di ordine pubblico internazionale deve essere rapportato all’uso della violenza in funzione di ordine pubblico interno. Non v’è dubbio che nell’ordinamento interno degli Stati è ammissibile un uso minimo della violenza per impedire o per stroncare il ricorso alla violenza dei soggetti privati. Non v’è dubbio però che, quando il ricorso alla violenza eccede i requisiti della necessità e della proporzionatezza, esso è illegale. Le stesse considerazioni dovrebbero valere anche per l’ordinamento internazionale.
Se noi consideriamo che il ricorso alla guerra non costituisce una strumento che rientra nel novero delle misure coercitive previste dalla Carta delle Nazioni Unite, allora vi è perfetta compatibilità fra la Carta dell’ONU ed il principio del ripudio della guerra portato dalla Costituzione italiana. Questo principio non comporta alcuna fuga dalla responsabilità del nostro paese di concorrere alla gestione dell’ordine pubblico internazionale al fine di promuovere, assicurare, garantire o mantenere la pace.
Sul piano pratico non possiamo nasconderci la difficoltà di stabilire dove passa il confine fra una misura coercitiva lecita ed una misura in cui il ricorso alla violenza si espande fino a sconfinare in un’azione simile alla guerra, sia pure sotto il profilo della c.d. “guerra giusta”.
Non possiamo nascondere che fra le principali forze politiche del nostro paese è passata una lettura che mette in contrapposizione il ripudio della guerra con l’azione per costruire la pace e la giustizia nello scenario internazionale, affidata alla responsabilità del CdS. Con la conseguenza che il perseguimento della pace, conformemente alle decisioni del CdS, prevarrebbe sul ripudio della guerra, depotenziandolo.
La crisi della Libia e l’intervento armato effettuato da una coalizione internazionale con l’autorizzazione del Cds (Ris.1973), in cui l’Italia è arrivata – sia pure con diffuse perplessità – alla decisione di partecipare ai bombardamenti, costituisce un evidente banco di prova di queste due concezioni a confronto.
C’è un editoriale di Valentino Parlato (il manifesto del 28 aprile) che richiama l’interpretazione giuridica fornita dal Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano.
“Napolitano mi ha detto che è costretto a ripetere considerazioni che ha già dovuto fare in passato, anche prima di essere eletto alla Presidenza della Repubblica. L’articolo 11 della Costituzione, quello sul ripudio della guerra (nella scelta del termine – sottolinea – è evidente il riferimento alla guerra in cui si imbarcò l’Italia fascista) deve essere letto e correttamente interpretato nel suo insieme. E ha precisato: partecipando alle operazioni contro la Libia sulla base della risoluzione 1973 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite, l’Italia non conduce una guerra né per offendere la dignità di altri popoli né per risolvere controversie internazionali; l’Italia risponde a una richiesta delle Nazioni Unite, «organizzazione internazionale» alla cui Carta fondativa del 1945 evidentemente fa riferimento la nostra Carta elaborata dall’Assemblea Costituente. Di conseguenza, Napolitano ci ha invitato a leggere il capitolo VII della Carta delle Nazioni unite, che prevede l’impiego della forza armata dinnanzi a minacce alla pace, violazioni della pace e atti di aggressione. E – ha aggiunto – è proprio sulla base del cap. VII che il Consiglio di sicurezza dell’Onu ha adottato la risoluzione 1973. Quindi, non c’è nessun contrasto fra il nostro art. 11 e quella Carta delle Nazioni unite che proprio con il cap. VII volle segnare un fondamentale discrimine rispetto alla impotenza mostrata dalla Società delle Nazioni, con catastrofiche conseguenze, negli anni Trenta.”
Mi permetto di dissentire da questa lettura che involontariamente finisce per banalizzare il profondo valore etico e giuridico espresso dal ripudio della guerra. E’ vero che i Costituenti avevano in mente la guerra in cui il fascismo imbarcò l’Italia, ma le testimonianze dei condannati a morte della resistenza ci dicono qualcos’altro. Ci dicono dell’aspirazione ad una nuova storia in cui la guerra fosse bandita per sempre dal destino dell’umanità. Nel ripudio della guerra non c’è solo il bando alle guerre fasciste, c’è il bando alla guerra come tale, come strumento a disposizione degli Stati, prerogativa della loro sovranità.
Nel principio personalista c’è il riconoscimento dell’uomo come valore storico-naturale, posto a fondamento del diritto. La guerra, in quanto uso della violenza bellica, comporta necessariamente la distruzione indiscriminata di questo valore storico naturale, in ciò risiede la sua ontologica natura antigiuridica. Questo non vuol dire che il ripudio della guerra comporti sempre ed in ogni caso l’impossibilità giuridica di ricorrere alla violenza di tipo bellico.
Il codice penale ripudia l’omicidio, però lo consente in casi di legittima difesa (art. 52 c.p.), in casi di uso legittimo delle armi (art. 53) che si verifica quando il p.u. è costretto a fare uso delle armi quando vi è necessità di respingere una violenza o di vincere una resistenza all’Autorità e comunque di impedire la commissione di gravi delitti, ovvero quando ricorre lo Stato di necessità (art. 54) che si verifica quando si è costretti dalla necessità di salvare sé od altri dal pericolo di un danno grave alla persona.
Anche nelle relazioni internazionali si debbono applicare gli stessi criteri morali e giuridici che vigono nell’ordinamento interno, sia pure con i dovuti adattamenti.
Pertanto il ripudio della guerra non impedisce il ricorso alla violenza bellica, che sia autorizzato o meno dell’ONU, quando è indispensabile, per es. per impedire o porre termine ad un genocidio, ma devono ricorrere i presupposti dello stato di necessità.
Quello che non è accettabile è la pretesa che il perseguimento di un fine di giustizia possa legittimare l’indebolimento o addirittura l’abbandono del principio del ripudio della guerra. Come non è accettabile la pretesa che le limitazioni di sovranità nei confronti delle organizzazioni internazionali che hanno il compito di promuovere la giustizia e la pace (qual è sicuramente l’organizzazione delle Nazioni Unite) possano prevalere sui principi fondamentali della costituzione fra i quali rientra, a pieno titolo, il principio del ripudio della guerra.
Del resto la Corte costituzionale ci ha detto chiaramente che le limitazioni di sovranità non possono incidere sul nucleo duro della costituzione, rappresentato dai principi costituzionali e dai diritti inviolabili dell’uomo (Corte cost. 19/11/1987 n. 399).
Come l’azione per la pace non può essere disgiunta dalla ricerca della giustizia, così il perseguimento della pace e della giustizia non può essere disgiunto dal ripudio della guerra, in quanto – la storia ce l’ha insegnato – neanche la pretesa di realizzare il paradiso in terra può legittimare il ricorso a mezzi ontologicamente ingiusti.
Solo riconoscendo la rinnovata attualità ed il valore di tali principi possiamo confrontarci con le drammatiche sfide che ci pone la crisi libica.
Per prima cosa bisogna sbarazzare il campo dalle teorie vetero-.sovraniste. La crisi della Libia non è un affare interno di uno Stato sovrano nel quale né gli altri Stati, né la Comunità internazionale possono mettere becco. E’ di intuitiva evidenza che una guerra civile è una situazione che minaccia la pace e la sicurezza internazionale. Inoltre una guerra civile può facilmente evolvere verso forme di genocidio. Nell’uno e nell’altro caso scatta la competenza del Consiglio di Sicurezza che deve adottare delle misure per mantenere o ristabilire la pace, ai sensi del cap. VII della Carta delle Nazioni Unite ed impedire i genocidi, ai sensi della Convenzione internazionale contro il genocidio. Il Consiglio di Sicurezza, seguendo la progressione prevista dalla Carta, prima ha adottato delle misure non coercitive (embargo delle armi, congelamento dei fondi e deferimento di Gheddafi alla Corte Penale) con la risoluzione n. 1970 del 26 febbraio 2011, dopo, non avendo il regime di Gheddafi desistito dall’uso della violenza nei confronti del suo popolo, legittimamente ha disposto il ricorso a misure coercitive.
Talune di queste misure comportano un uso minimo della forza ma sono di grande utilità per reprimere il ricorso alla violenza da parte del regime di Gheddafi. Si tratta della No Fly zone, del bando dei voli degli aerei della Libia, del rafforzamento dell’embargo delle armi e dei mercenari, attraverso la possibilità di ispezionare tutti i vettori diretti in Libia, anche in alto mare.
Non c’è dubbio che tali misure (che potremmo chiamare di polizia internazionale) siano compatibili con il principio costituzionale del ripudio della guerra e siano direttamente funzionali a provocare un decremento della violenza.
Suscita invece serie perplessità la misura prevista al cap. 4 con la quale si autorizzano gli Stati membri da soli oppure operando in organizzazioni regionali a “prendere tutte le misure necessarie per proteggere i civili e le aree popolate da civili sotto la minaccia di attacco dalle forze del regime libico, escluso l’invio di forze di occupazione straniere”.
Questa disposizione è stata interpretata da alcuni Stati come una autorizzazione indiscriminata ad effettuare bombardamenti, evidentemente contro obiettivi militari libici.
In questo modo si è aperta la porta ad una sorta di guerra aerea, internazionalmente autorizzata, quindi ad una misura che comporta un uso della violenza di tipo bellico, come tale profondamente ingiusta, in quanto comporta il sacrificio di vite innocenti.
Quello su cui bisogna riflettere è l’inadeguatezza della misura allo scopo. Per proteggere la vita delle persone minacciate dalla controffensiva delle forze del regime, si impiantano delle operazioni militari che necessariamente comportano uno stillicidio di stragi di civili. Uno stillicidio che non accenna a finire e che falsifica lo scopo, la finalità di protezione dei civili invocato a giustificazione della misura stessa.
In realtà sul campo si è creata una situazione di impotenza delle armi, simile a quella che si creò con l’intervento aereo della NATO contro la Jugoslavia nel 1999. Durante i 78 giorni di bombardamenti della NATO, il regime di Milosevic, padrone della situazione sul terreno, operò la più massiccia operazione di pulizia etnica del Kosovo che fosse stata mai tentata durante la crisi ventennale della convivenza fra serbi ed albanesi. Non v’è dubbio che il regime di Gheddafi, nelle aree non controllate dagli insorti, può abbandonarsi alla repressione più violenta, senza subire ingerenze di sorta.
Per di più gli insorti, fin quando ricevono l’appoggio aereo della NATO, non hanno interesse a ricercare nessun altra soluzione della crisi che non sia l’estinzione del regime per debellazione. Prospettiva che non è a portata di mano data la pervicace resistenza del regime di Gheddafi e che, in ogni caso, comporterebbe degli strascichi intollerabili in termini di vendette e di odii tribali.
In questo modo, invece di stroncare o quanto meno di arginare la violenza, c’è il rischio di rendere permanente la guerra civile, con un costo altissimo in termini di vite umane e di distruzioni morali e civili.
Se vogliamo evitare di creare un altro Afganistan nel cuore del Mediterraneo è urgente mettere da parte l’uso bellico della violenza e sviluppare altri percorsi, anche attraverso una interpretazione più politica e meno militare della Ris. 1973 del C.d.S.