Se sono del tutto comprensibili – sul piano umano – la delusione e lo sconforto con cui è stato accolto il doppio no della Corte Costituzionale ai referendum elettorali da parte di coloro che si sono impegnati nella campagna referendaria, con la speranza di aprire una stagione di cambiamento della politica, occorre dire chiaramente che sono inaccettabili le bordate sparate contro la decisione della Corte, accusata di essere pervenuta ad una decisione “politica”, ispirata dal Palazzo.
Non si sono ancora spenti, infatti, gli echi delle aggressioni intimidatorie effettuate da Berlusconi e dai leghisti contro le decisioni della Corte tutte le volte che la Consulta ha esercitato il suo ruolo istituzionale di custode della Costituzione, cancellando dall’ordinamento giuridico gli obbrobri di una legislazione discriminatoria e ad personam.
Tuttavia non è solo un problema di bon ton istituzionale, tali critiche sono radicalmente sbagliate in quanto è vero esattamente il contrario.
In realtà, la Consulta, non ammettendo i quesiti, malgrado una fortissima pressione politica proveniente dalla stampa, dalle associazione e dalle legittime aspettative dei firmatari, ha agito in conformità al suo ruolo di istituzione di garanzia giurisdizionale, facendo prevalere le ragioni del diritto sulle (legittime) aspettative dell’opinione pubblica e sulle richieste di una parte del mondo politico.
Dovremo aspettare le motivazioni per conoscere pienamente le ragioni della Corte, tuttavia è intuitivo che i quesiti referendari, fin dall’inizio, non erano ammissibili in quanto, per l’ordinamento giuridico, l’abrogazione di una norma non può comportare la reviviscenza di una norma in precedenza cancellata dalla norma abrogata, altrimenti abolendo l’ergastolo si farebbe rivivere la pena di morte.
Per ammettere i quesiti, la Corte avrebbe dovuto modificare i connotati del referendum, riconoscendogli una funzione non solo abrogativa ma anche propositiva, che nella Costituzione non è contemplata.
Coloro che hanno proposto il referendum, che indubbiamente non sono degli sprovveduti, erano perfettamente coscienti che i quesiti erano inammissibili, salvo un imprevedibile mutamento di rotta della Corte Costituzionale. Infatti il vero promotore del referendum, l’on. Arturo Parisi, si è detto non sorpreso dalla decisione del giudice delle leggi.
Ed allora i cittadini che hanno firmato i referendum e tutti coloro che in buona fede hanno aderito e si sono mobilitati per raccogliere le fime, potrebbero anche adirarsi e chiedere ai “tecnici” per quale motivo quelli che agitano la bandiera della cancellazione della attuale ignobile legge elettorale non hanno presentato dei quesiti che avessero la possibilità di essere ammessi dalla Corte, rendendo così concretamente possibile la modifica della “porcata” attraverso il referendum.
La risposta è fin troppo evidente. Il vero obiettivo degli ispiratori del referendum Parisi non era quello di modificare la normativa elettorale vigente attraverso il referendum, bensì quello di scongiurare che la legge Calderoli venisse modificata dal referendum proposto dal Comitato presieduto dal prof. Passigli, che aveva presentato dei quesiti volti a cancellarne gli aspetti più osceni. Due dei tre quesiti proposti da Passigli erano sicuramente ammissibili: quello che abrogava il premio di maggioranza (che la stessa Corte Costituzionale aveva drasticamente criticato con le sentenze 15 e 16 del 2008) e quello che abrogava l’indicazione del Capo politico. Il terzo quesito proposto da Passigli, invece, appariva inammissibile in quanto, attraverso l’abrogazione delle liste bloccate, tendeva a far rivivere la disciplina delle preferenze di lista. L’effetto di tali modifiche sarebbe stato quello di introdurre un sistema elettorale proporzionale corretto dalla soglia di sbarramento al 4%. Ciò avrebbe consentito agli elettori di scegliere, se non la persona fisica, almeno la forza politica da cui essere rappresentati, restaurando il principio costituzionale per cui il voto deve essere uguale e libero per tutti.
Contro questa iniziativa, che per la sua praticabilità comportava la possibilità concreta di modificare radicalmente la legge Calderoli attraverso il referendum, la componente “riformista” del PD ha ha scagliato fuoco e fiamme, fino al punto che l’on. Veltroni ha inviato due lunghe lettere aperte alla Repubblica ed al Corriere, denunziando il referendum Passigli come una iniziativa rivolta al passato che avrebbe comportato un danno mortale per l’Italia, reintroducendo il sistema elettorale proporzionale, che – a detta di Veltroni – sarebbe stato responsabile di tutti i guai della c.d. “prima Repubblica”, comprese le stragi.
In questa situazione, in cui la delegittimazione politica di questa legge elettorale fa ormai parte del senso comune, la pronunzia della Consulta non gioca un ruolo di ingessatura dell’attuale sistema elettorale, ma impedisce che la questione possa essere chiusa per sempre attraverso una consultazione popolare che restaurando il mattarellum, ci avrebbe vincolato ad un sistema di bipolarismo forzato che l’esperienza politica dell’ultimo quindicennio ha dimostrato quanto sia dannoso per la democrazia costituzionale.