80 anni fa, alle ore 18 del 10 giugno, il Capo del Governo, Primo Ministro e Segretario di Stato, cav. Benito Mussolini, si rivolgeva agli italiani con queste parole: «Combattenti di terra, di mare e dell’aria! Camicie nere della rivoluzione e delle legioni! Uomini e donne d’Italia, dell’Impero e del regno d’Albania! Ascoltate! Un’ora segnata dal destino batte nel cielo della nostra patria. L’ora delle decisioni irrevocabili! La dichiarazione di guerra è già stata consegnata agli ambasciatori di Gran Bretagna e di Francia».
Indubbiamente Mussolini aveva capito che quella scelta avrebbe influito sul destino dell’Italia ma si illudeva di potersi sedere al tavolo dei vincitori pagando solo il prezzo di «un pugno di morti». Non poteva immaginare quanto sarebbe stato pesante il conto che la Storia gli avrebbe presentato.
Ci sono molti modi di ripensare a questa ricorrenza, alle sofferenze inenarrabili che essa causò al popolo italiano e agli esiti di liberazione prodotti dalla Resistenza. Qui ci interessa riflettere su come furono adottate quelle “decisioni irrevocabili”. Per quanto è dato di sapere nessun organo costituzionale del Regno d’Italia deliberò l’entrata in guerra. Non il Parlamento, che non fu neppure consultato, non il Gran Consiglio del fascismo (che intervenne solo per cercare di salvare il salvabile, sfiduciando Mussolini il 24 luglio 1943), non il Consiglio dei Ministri, che non assunse alcuna deliberazione in proposito, non il Capo dello Stato, il Re, che si piegò a una decisione del Capo del Governo della quale non era convinto. Un uomo solo al comando si arrogò il potere di assumere le “decisioni irrevocabili” per il popolo italiano.
La Costituzione italiana nacque dalle tragiche lezioni della Storia e intese reagire a quelle storture istituzionali che avevano portato un uomo solo a decidere del destino di tutti. Se i principi fondamentali sono antitetici a quelli proclamati o praticati dal fascismo, è l’architettura del sistema istituzionale che fa la differenza e impedisce che nel nostro futuro possa ripetersi un evento come quello del 10 giugno 1940. La divisione, l’articolazione e la distribuzione dei poteri, il sistema di pesi e contrappesi istituzionali, la funzione della rappresentanza, la centralità del ruolo del Parlamento, sono frutto di una sapienza che ha saputo cogliere le lezioni della Storia.
Non c’è dubbio che da molti anni si è verificata una crisi nel cuore del sistema democratico che ha visto una progressiva perdita di fiducia dei cittadini nella rappresentanza parlamentare e una corrispondente perdita di rappresentatività delle assemblee parlamentari, sulla cui composizione gli elettori possono influire ben poco. Il problema è che non si può curare questo malessere banalizzando le istituzioni democratiche e il loro ruolo. Se la democrazia rappresentativa si è inceppata perché i partiti politici si sono trasformati in strutture di potere invece che canali di partecipazione dei cittadini alla vita pubblica, se noi non ci sentiamo rappresentati dai parlamentari che abbiamo eletto senza poterli scegliere, la soluzione non può essere quella di svilire la rappresentanza, come fanno, anche inconsapevolmente, tutti coloro che esultano perché una riforma costituzionale (non ancora entrata in vigore) ha tagliato del 36,5% i seggi alla Camera e al Senato, ritenendo le spese del Parlamento un costo inutile. Questa politica di populismo anticasta, seppur basata su disagi reali, ha fatto sì che, secondo il rapporto del Censis del 6 dicembre scorso, il 48% degli italiani oggi dichiara che ci vorrebbe un «uomo forte al potere che non debba preoccuparsi di Parlamento ed elezioni». Se ha un senso ricordare la ricorrenza del 10 giugno 1940, il senso è proprio questo: di tutto abbiamo bisogno tranne che di un «uomo forte al potere«, che assuma le «decisioni irrevocabili» per il popolo.
La Costituzione rende impossibile che ciò possa accadere di nuovo. I suoi meccanismi di articolazione del potere e di organizzazione della vita democratica non sono un tabù, ma meritano rispetto e devono essere maneggiati con la massima cura. La composizione delle assemblee rappresentative può essere variata, il numero dei parlamentari può essere ridotto, ove sussistano delle valide ragioni, ma la scelta che il popolo italiano sarà chiamato a fare con il referendum è importante proprio perché incide su un istituto delicato, quale quello della rappresentanza politica. Accorpare il voto sul referendum costituzionale al voto per il rinnovo delle amministrazioni delle Regioni e dei Comuni, come si vuol fare con l’election day, significa impedire che il corpo elettorale, gravato da domande politiche eterogenee, possa compiere le scelte sulla Costituzione con la piena consapevolezza della posta in gioco e quindi svilire la Costituzione stessa. Ma la Storia non ha nulla da insegnare?
BUENO. ENRICO